osvaldo licini























“Da due anni sto acculando materiali, materiali. Fra poco sarò pronto per la mia ultima avventura, la vera, la decisiva”: così scrive Licini nel 1943 a Giuseppe Marchiori, che lo seguirà fedelmente sino alla fine, e dopo la morte.
Questi anni – gli ultimi della guerra, e i primi d’un affaticato dopoguerra, che non riusciva a chiudersi – sono stati per Licini, che li vive appartato a Monte Vidon Corrado, un tempo circondato dal mistero: mistero che avvolge i suoi rapporti con il mondo e identicamente la sua pittura, che è adesso in procinto di rinnovarsi interamente. Non è facile scalare con puntualità, nei mesi e negli anni che seguono, il procedere verso il drastico rinnovamento (venuto al termine d’una “lunga e nascosta incubazione dei nuovi soggetti”, come ha ricordato di recente Mattia Patti) di cui egli cova le ragioni già nel ’41, e che ha certamente in parte avviato già nella primavera di quello stesso anno, quando confida a Alberto Sartoris d’aver “sottoposti a revisione”, fra gli altri, i quadri che aveva inviato alla Quadriennale di Roma del ’39, che “non esistono più come [tu] li vedesti”.
Né è facile dire di che natura fossero allora le sue vicende esistenziali, che certamente contribuirono a spingerlo a rifiutare, lungo quasi tutto il decennio che stava aprendosi, la pubblicazione del suo lavoro, del ‘vecchio’ astrattismo (che solo saltuariamente, e contro la sua volontà, fu negli anni Quaranta esposto in mostre collettive) come del nuovo modo, che egli rese pubblico solo nel maggio 1950: al Premio del Fiorino a Firenze, prima, e appena dopo, più largamente, alla XXV Biennale di Venezia, ove espose nove ‘Amalassunte’ (chiarendo contestualmente a Marchiori che, se interrogato sul loro significato, egli avrebbe potuto rispondere “a mio nome, senza ombra di dubbio, sorridendo, che Amalassunta è la Luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”). E non è facile spiegarsi, sopra ogni altra cosa, la separatezza che egli scelse, in questo giro di tempo, di mantenere persino con Marchiori; separatezza alla quale dobbiamo ascrivere le incertezze di datazione che la monografia del ’68 registra con riguardo all’opera di questi anni (è poi una grave lacuna non disporre interamente della corrispondenza intercorsa allora fra i due, che aiuterebbe a riconoscere tutte le ragioni, tra l’altro, della mancata partecipazione di Licini al “Fronte Nuovo delle Arti”).
A mezzo di quel cammino, nel ’46, Licini scriveva, in una lettera poi sempre citata, indirizzata a Maria Cernuschi Ghiringhelli – cui in massima parte si deve se la sua figura non fu allora completamente dimenticata – illustrandole la direzione del suo lavoro: “Dal reale all’astratto. E dall’astratto io me ne sto volando adesso, in foglie e fiori, verso lo sconfinato e il soprannaturale”. Con lo sguardo rivolto in alto, allora; a dire che, senza averle scordate del tutto, le ragioni dei ‘Personaggi’, degli ‘Olandesi volanti’, delle ‘Amalassunte’ e degli ‘Angeli ribelli’ si sono staccate ormai da quelle “viscere della terra” dove, forse con piglio non immemore del surrealismo francese che aveva visto nascere a Parigi, diceva d’aggirarsi, nel febbraio del ’41.
E proseguiva, nella lettera alla Cernuschi: “Certo, la solitudine mi è di grande aiuto”. Una solitudine in cui l’opera sua maggiore poteva, soltanto, veder la luce. Immaginiamo il suo studio ingombro d’immagini mai finite, come mai erano finite, gli stessi anni, le figure di De Kooning: l’uno e l’altro, per tutto il resto, distanti almeno quanto l’oceano che li separava; ma in questo abbarbicarsi alle loro immagini, senza poterle lasciare, davvero prossimi. Immaginiamo la soffitta, ricolma delle tele d’anni Venti, che accoglieva le sue quotidiane incursioni, e cernite: fatte con l’ansia di ‘perfezionare’ quelle sue antiche immagini dimenticate da tutti, kleeianamente “mai nate”, davvero. E immaginiamo la moglie che cercava di sottrarne qualcuna alla furia del nuovo Licini, per consegnarle a una memoria futura.
Della sua solitudine, in questo tempo cruciale per la sua pittura, venuta dopo tante solidarietà importanti (a Bologna le prime, con i “secessionisti”; poi a Milano, nella cerchia del Milione; infine con il tardo futurismo), ha scritto con sensibilità acuta Zeno Birolli: “Il paese di Montevidone, il suo rifugio, difesa, fonte di meditazione creativa, non era luogo di mistica costrizione, condizione morandiana, ma di lotta senza fine, di fieri contrasti, di violazioni-rinunce, di ascesi-depressione”. Di capacità, anche, “di identificarsi con la gente locale, con il loro spirito amaro e le tradizioni ancestrali”. Una solitudine non contraddetta, ma semmai confermata, dall’impegno di amministratore pubblico (fu sindaco, ripetutamente, a Monte Vidone; e s’infiammò sovente di lavoro e di passione, ma senza che il suo essere comunista significasse mai avvicinarsi ai dettami di politica culturale, e quindi alle solidarietà, del partito). Così, alla fine, la sua fu per certo una solitudine diversa da quella dell’amico di gioventù, Giorgio Morandi: che dalla sua appartatezza seppe infine far discendere parte di quell’aura che lo circondò. “Solitudini”, e “silenzi”, furono invece per Licini solo testardi, indeclinabili moti dell’animo, necessità profonde senza alcun riscatto mondano: “troppo immensamente aperti [nel] cuore e nell’anima” per essere piegati anche a dare un qualche frutto ‘strategico’.

“La misura della sua incontentabilità”

Un tempo “di dieta, di flagellazioni spirituali, di cilicio a M. Vidon Corrado”, Licini se l’era ripromesso fin dal 1931: dall’inizio di quell’anno, in particolare, quando la nuova stagione astratta covava sotto la cenere di una pittura figurativa ancora capace di qualche colpo di coda. Una stagione nuova che sarebbe nata come risarcimento alla sua adesione, della quale non era mai stato interamente convinto, alla pittura dei “Novecentisti” e a quel modo suo che aveva dubitativamente chiamato “realista”.
Ma quell’isolamento era tutt’altro, per adesso, di un cilicio portato quotidianamente sotto la veste: tant’è che a quel primo proposito era seguito lo stringersi di Licini al gruppo del Milione; e per ora sarebbe venuta soltanto una sua appartatezza esistenziale, nel paese natale delle Marche (iniziata d’altronde già prima, con il rientro da Parigi, ove aveva la madre e la sorella, e ove aveva frequentemente esposto in mostre pubbliche e private), che non gli precludeva il cercar solidarietà e colloqui con gli “amici” di Milano (li chiamava così, pur non conoscendoli di persona, nella Lettera aperta al Milione che figurerà come autopresentazione nel catalogo della personale tenuta presso la galleria milanese nel ’35). Sarà solo negli anni di guerra, un decennio dopo, che la sua solitudine diverrà radicale, configurando la sua esperienza come singolarissima ‘eccezione’ nel panorama italiano.
Eppure – quasi in rotta di collisione con le sue intenzioni, che saranno per tanti anni ‘geometriche’ – la pittura già preavverte quella visionarietà che albergherà solo più tardi nel pensiero e nei consapevoli proponimenti di Licini. Appaiono a tal proposito definitive le nuove ricerche, e l’argomentare che ne discende, condotte da Mattia Patti circa la rielaborazione dei due Arcangeli, la cui prima stesura risale alla seconda metà degli anni Dieci (al 1917, per la precisione, e non al ’19, come sempre asserito), e al cui rifacimento Licini pose mano nella prima metà del quarto decennio del secolo, entro il ’34, data in cui la versione certo rivisitata dell’Arcangelo Gabriele fu in predicato d’essere inviata alla seconda Quadriennale romana.
Già con gli Arcangeli, riferibile dunque quasi al primo incipit della sua pittura, ha inizio allora quel doppio binario di interrogativi che accompagnerà tutta l’opera di Licini, sin quasi agli ultimi anni. Posti da un canto dall’incertezza – relativa sia ad ogni singola opera, sia all’avvio di più vasti cicli di lavoro – circa il momento della loro prima configurazione; dall’altro dal tempo della frequente rielaborazione cui molte fra esse furono sottoposte. Ha ricordato Flaminio Gualdoni come Licini vivesse “a lungo con le sue opere, vista l’indifferenza del collezionismo, e il suo rimuginio lo portava a riprendere in tempi diversi, spesso a distanza di molti anni, il medesimo lavoro”. In aggiunta a questo, si è riconosciuto più volte che ulteriori inciampi a una corretta ricostruzione del suo percorso discendono dalla scarsa attenzione destinata da Licini, soprattutto nelle sue stagioni più prolifiche, alla differenziazione dei titoli (Giorgio Magnoni ha recentemente rilevato la confusione ingenerata, ad esempio, dall’identico titolo, Amalassunta, assegnato alle nove opere presentate – e in catalogo datate tutte, improbabilmente, al 1950 – alla XXV Biennale di Venezia), e alla relativa conoscenza di interi periodi della sua produzione da parte del suo stesso più autorevole esegeta, Giuseppe Marchiori, che si incaricò, dopo la morte dell’artista, di redigerne il primo catalogo generale: nell’ambito di un’opera mai prima d’allora vagliata nel suo complesso (lo stesso Marchiori dichiarò d’altronde a più riprese il suo imbarazzo ad affrontare l’impresa – le cui esatte dimensioni, per sua stessa ammissione, gli sfuggivano: contando fra i 300 e i 600 dipinti le opere probabilmente da schedare – e per la quale a lungo s’era battuto, intuendone lucidamente la necessità, ma che infine licenziò fra mille dubbi, pressato dall’urgenza di far uscire il suo catalogo in coincidenza con la grande retrospettiva di Torino curata da Zeno Birolli e Aldo Passoni).
D’altra parte, il lavoro di modifica e integrazione non è limitato soltanto alla revisione dei dipinti figurativi, operata per lo più negli anni dell’astrazione per così dire geometrica e all’avvio del successivo quinto decennio (ma non solo: è pienamente da condividere il parere di Mattia Patti che codesta integrazione sia proseguita per tutti “gli anni Quaranta, forse persino dentro i Cinquanta”). Essa è più clamorosamente evidente sia quando accosta, come nel caso dell’Arcangelo, due modi di pittura in flagrante distonia, sia quando lascia (volutamente, c’è da supporre) ben visibile in un fondo appena scialbato l’immagine più antica, ‘sostituendola’ con un’altra: come avviene – probabilmente all’avvio del sesto decennio – nell’Angelo ribelle su fondo grigio, che ‘cancella’ per giunta un dipinto (Figura in verde) cui Licini doveva presumibilmente aver molto tenuto, se ne aveva inviato la riproduzione a Scheiwiller, nel gruppo di fotografie indirizzatogli nel ’29, e l’aveva poi esposto alla prima Quadriennale di Roma del 1931, vedendolo per giunta riprodotto in catalogo. Non solo, dunque, ‘contro’ questo tempo s’era appuntata quella che Marchiori chiamerà “la misura della sua incontentabilità”, ma verso tutti i suoi anni, configurandosi, più che come un aggiornamento di forme, come un metodo – quello sì rimasto sempre identico a sé stesso – di lavoro. Basta, a tal proposito, rileggere una lettera inviata appunto a Marchiori nel novembre del ’57, dunque nei suoi mesi estremi, nella quale Licini scriveva: “Non creda di trovare [venendo a Monte Vidon Corrado per preparare la mostra allestita dal Centro culturale Olivetti di Ivrea del 1958] qualche cosa di buono nel mio studio: tutto quello che ho qui deve essere ancora riveduto e corretto”.
Di ardua o impossibile catalogazione cronologica ‘ad annum’, il lavoro di revisione può comunque essere spostato dalla fine degli anni Venti, in cui è stato supposto soprattutto aver luogo, ad un tempo ulteriore. Molte argomentazioni lo suggeriscono: interne ed esterne alle ragioni formali della pittura. Un argomento esterno, ma già di probante evidenza, è l’ovvia incompatibilità concettuale fra la raccolta fotografica di opere inviate da Licini a Scheiwiller nel ’29 – da lui dunque in quel momento selezionate come rappresentative, e tutte ancora intonse da successivi interventi che oggi si riscontrano sui dipinti – e una ipotetica, contemporanea determinazione del pittore ad un loro ‘aggiornamento’. Ancora, fra le poche testimonianze di terze persone capaci di offrire un contributo alla collocazione cronologica del processo di revisione (o meglio, come s’è detto, del suo incipit come momento sistematico di lavoro) sono quelle di Paolo Licini e di Caterina Hellström Riccitelli, concordi nel collocare la prassi della riscrittura di tele più antiche all’avvio degli anni Quaranta. Sappiamo che, in taluni casi, questa prassi era già stata messa in opera (ad esempio, nel caso degli Arcangeli) in un tempo antecedente; pur tuttavia la testimonianza precisa e circostanziata del figlio Paolo è da tenere in conto.
Il ricordo di Paolo Licini si riferisce in particolare al Paesaggio Montefalcone (il trogolo), che egli testimoniò d’aver visto in corso di rielaborazione nello studio di Monte Vidon Corrado nel 1942, e di cui in particolare diremo, assumendolo come caso esemplare della “incontentabilità” di Licini. Il confronto fra l’immagine attuale e la prima stesura del dipinto, documentata dal volume di Scheiwiller Art Italien Moderne, edito a Parigi nel 1930, è indicativo della profonda evoluzione cui la tela, di ragguardevoli dimensioni, era stata sottoposta. Dall’anno del suo concepimento (il 1928, data indicata da Licini nell’invio del materiale a Scheiwiller) a quello del nuovo intervento, tutto è cambiato: resta, quasi inalterata, soltanto la fascia mediana, che era peraltro anche nella originaria stesura certo la più eccedente da una ‘normale’, corretta stesura di un paesaggio, con quella sua figuretta bislacca (memore forse soltanto di certa pittura francese postimpressionista) a tener la scena, accanto al gabbiotto nero e all’esplosione cromatica del muricciolo sbilenco.
Per il resto, l’ingresso al dipinto viene completamente rivisto: sul primo piano, dove l’ingresso alla spazialità del dipinto stesso è bruscamente riassunto da una veloce strusciata di pennello che scorre, franando da destra a sinistra lungo la composizione; mentre tutta la metà superiore del dipinto, prima saldamente costrutta dai volumi saldi e quasi ‘novecenteschi’ delle abitazioni e, sopra di esse, da un cielo variato e atmosferico, è ora turbata dal grande spazio unito che grava, e quasi schiaccia, le casette cigolanti sotto il peso di quella incommensurata oscurità.
Sulla sinistra, infine, ecco la ‘riforma’ forse più radicale: lo sperone di roccia che arginava la composizione si riduce adesso a due celeri segni che s’incontrano a formare una cuspide improbabile, lontana da ogni mimesi possibile del naturale. È quel trepido incontro di un segnare lieve e come svagato che dà il ritmo e il sentore, innaturalistici, alla composizione: un segnare che s’apparenta a quello ravvisabile in cose tanto distanti fra loro come Il capro e la versione rivisitata delNudo originariamente d’anni Venti (“…sciabolato con le stesse linee, con lo stesso pennello, intinto negli stessi colori…” scrive Magnoni riferendosi ai due quadri); o come la versione del Ritratto di Nella esposta alla Quadriennale romana del ’59-’60 e l’orizzonte strusciato di rosa di Servigliano (dipinti anch’essi sui quali Licini è tornato, modificandoli); o ancora come quell’altra franante dorsale di monte che è già il braccio destro di Nanny nel ritratto famoso del ’26 e la china del colle che scompartisce in due metà equivalenti (ma una vuota del tutto, se non di cielo!) della Collina con alberi inviata anch’essa, in una redazione tutta diversa, a Scheiwiller nel ’29.

Il terzo decennio del secolo: un po’ di storia, e alcune premonizioni

Quando, probabilmente nel 1920, si stabilisce a Parigi, s’apre il terzo, fecondo periodo della formazione, dopo il “Primitivismo fantastico”, situabile tra il ’13 e il ’15, e gli “Episodi di guerra”, attorno al 1917. È questo il vero laboratorio liciniano; nel quale è stato detto molte volte che tanto sta racchiuso, del futuro Licini.
“1920-1929. Realismo?”: così ne dirà a Scheiwiller. Dubitando, dunque; ma forse dubitando più a causa della preoccupazione di coniugare il ‘vecchio’ tragitto con il nuovo che già gli preme dentro, che nel definire congruamente il decennio che sta per chiudersi. Sempre a Scheiwiller risponderà anche di non riconoscere nel suo passato “nessuna opera importante da segnalare. Solo studi”; opinione che poi muterà, più d’una volta attestando fiducia in quei “200 buoni quadri che ho dipinti dal vero”. E che ha iniziato, appunto, a dipingere a Parigi. Fra i primi, i numerosi ritratti catalogati da Marchiori fra ’21 e ’23 attestano la compresenza di due divergenti suggestioni: l’una da ricondurre a Tozzi, che di Licini fu compagno affidabile e generoso lungo tutti gli anni francesi, ed oltre (quando, rientrato che fu Licini in Italia, Tozzi seguitò a difenderne l’opera nel suo ruolo, sempre più autorevole e fattivo, di promotore di mostre e aggregazioni più o meno ‘novecentesche’); l’altra da far risalire al fascino esercitato sull’italiano dalla più recente maturità di Matisse.
Così, dipinti quali Mia moglie di Tozzi, del 1920, sembrano aver suggestionato per certo il Licini di Donna col turbante (1922); e il modo quasi sironiano di tornire il volume delle braccia nella Donna con mughetti, sempre del ’22, è forse giunto a manifestarsi in Licini ancora grazie alla mediazione di Tozzi. Mentre il Ritratto della sorella, e più ancora la Donna alla finestra, entrambi ascritti al ’21, sono scoperti omaggi all’iconografia e al pennello veloce, scivolato, del Matisse coevo. “Tutta l’opera di Matisse esprime molto bene l’uomo Matisse”, scriverà d’altronde più tardi, memore di quegli anni, Licini a Marchiori; “entusiasmo, gioia di vivere, sensualità, lirismo, senso pagano dell’esistenza. Matisse è uno dei pochi che hanno saputo scoprire il volto della misteriosa bellezza, che per noi pittori è tutto quello che conta”. (Tra parentesi, in queste parole possiamo già mandare a mente quella mira di Licini, che si farà totalizzante nell’età matura, verso la “misteriosa bellezza” che ha da essere il tesoro primo della pittura).
Se le coeve Marine discendano anch’esse da una suggestione di Matisse, non è facile dire. Sono d’altronde quadri che rinserrano molti interrogativi. Furono dipinti a Saint Tropez, ovvero nelle Marche, davanti alle spiagge dell’Adriatico, alle quali sovente Licini tornava dal soggiorno parigino, già prima di fissarvi stabilmente la dimora? Parimenti dibattuta è l’influenza eventuale su queste pitture del segno nervoso, filante di Dufy: termine di raffronto certo non esaltante, ma difficile in realtà da negare, tenendo in conto il prestigio d’allora del petit maître, oltre all’indicazione esplicita di Tozzi (“Matisse + Dufy + Friesz”). E quel colpeggiare celere, a un angolo della piccola tela, di un pennello improvvisamente più intriso di materia cromatica, che designa ora un cespo di verzura, ora uno sperone di roccia – quasi una quinta, in un caso e nell’altro – e si dispone a contrasto con il liquido consistere, lo scivolar via del lungo e lento filo del mare, del cielo deserto, sarà da dir in ogni caso un intervento posteriore, dato sulla tela più antica a far risaltare maggiormente il vuoto che inquadra, e le poche direttrici in cui già ora si riassume il paesaggio liciniano?
Il transito definitivo al “realismo” di Licini, o meglio alla perfetta esplicazione di quella sua inflessione di lingua, viene comunque qualche tempo appresso: principiando, probabilmente, subito prima dei nudi modiglianeschi di metà decennio, uno dei quali, recentemente ricomparso, è qui a fianco riprodotto. Ma i modi non ne sono, ancora per breve tempo, univoci, e risentono ancora di influenze diverse. Al ’23 Marchiori data ad esempio (schedandolo al n. 55) un piccoloPaesaggio, in singolare, inattesa convergenza con la pittura di Morandi all’altezza del 1914, in cui le luci corrusche e saettanti scrivono come segni ustori le forme degli arbusti, delle case: retaggio, fors’anche, del Derain più notturno e disagiato. Ad un Derain più struttivo e solare, memore ancora di Cézanne, ripensano invece i due piccoli Paesaggi – Marchiori nn. 68 e 69 – probabilmente esposti a Parigi già negli anni Venti. Diversamente orientati sono infine, anche se probabilmente dello stesso 1923, altri paesaggi (Marchiori nn. 46, 48, 49), dove lo spazio è congestionato, in subbuglio, e gremito di linee e tagli prospettici che finiscono per contraddirsi l’un l’altro, mentre un poco d’ordine scende appena dall’orpello, ancora una volta cézanniano, dell’albero-quinta che margina un lato della composizione.
Questo modo del paesaggio prosegue, a singhiozzo, sino al ’28, quando viene, cruciale, Il trogolo (della cui prima e seconda stesura già s’è detto), che segnala, nella sua versione più antica, tutti i debiti che l’affannato comporre per crolli e vertigini dati in un magma di colore a tratti clamante ha nei confronti di Soutine. Ma a questa data è già sbocciato il modo che è da dir maggiore del paesaggio liciniano d’anni Venti, e che ha preso avvio nell’anno mirabile, il 1926, nel corso del quale Licini tocca la sua prima, alta maturità, con l’individuazione definitiva di quella spazialità, ovviamente antiprospettica, che trasmigrerà intera sia nel tempo astratto che in quello ultimo. Uno spazio, nasce ora, innervato da poche linee che s’incrociano sulla diagonale, atto a contenere non più che squilibri, improvvisi scivolamenti, minuti racconti senza costrutto, e piccoli luoghi di resistenza alterni a precipizi e voragini. Così sono Servigliano, già ricordato, ilPaesaggio con uomo. Montefalcone, o il Paesaggio “Ruota”, appunto assegnati al ’26; ed altri ancora fino almeno al Paesaggio del ’28 (Marchiori n. 130).
Quell’anno stesso, peraltro, altre intenzioni appariranno: e sarà la tentazione quasi strapaesana (singolare, visto tutto quel che Licini pensava e scriveva di Strapaese) del Paesaggio marchigiano già in collezione Della Ragione; o il grande cielo, condotto a piccoli tocchi separati, come ripensando il Cézanne tardo, sopra il Paesaggio che muove probabilmente dalla medesima occasione figurativa di Paesaggio “Ruota”, ma ha esito poi tutto diverso (dal Marchiori schedato al 1925-1929, n. 131). Le intuizioni spaziali pienamente esplicate sul genere del paesaggio passano presto alle figure, e in misura minore alle nature morte. Dopo l’omaggio renoiriano del Ritratto della madre, del ’23; dopo le incendiate prove da addebitarsi interamente a una suggestione dell’amatissimo Modigliani (c’è solo da stupirsi, in proposito, ch’essa agisca così tardi: 1925), che culminano nel Nudo della Pinacoteca di Ascoli Piceno e nell’altro Nudo già in collezione del ramo francese della famiglia; e dopo quelle che in modo parimenti evidente rammentano Soutine (le diverse versioni del Pastorello, ad esempio, o la Nannyottusa e stremata data al ’27 da Marchiori, n. 117), vengono così alcuni capolavori: fra essi la Testa di ragazzo (assegnata da Marchiori al ’23, ma ora spostata convincentemente da Patti dal ’25 in avanti) e la piccola Testa (Marchiori, n. 89), anch’essa del ’25 e infatti ancora pregna di un senso di modiglianesca irriducibilità. Infine il Ritratto di Nanny (Marchiori, n. 108; 1926, e uno dei non moltissimi quadri che rimase sempre intonso da revisioni più tarde) che Licini volle, unico dipinto figurativo, alla sua sala della Biennale del ’58, nel quale Flaminio Gualdoni ha giustamente sottolineato “una sorta di identificazione metamorfica tra corpo e paesaggio”, e una precoce manifestazione di quello spazio decentrato e periclitante che rimarrà fondante per Licini sino alla sua stagione più alta.

Alla vigilia delle figure male-assunte: alla ricerca del “nostro significato nel cosmo”

“Gli anni Quaranta di Licini iniziano nel 1938. Non è solo un gioco di parole: l’universo di segni e di miti che Licini elabora negli anni Quaranta trova le sue premesse in un clima intellettuale e in una sensibilità espressiva che si avvertono e si definiscono già qualche anno prima”. È interamente da condividere questa notazione di Elena Pontiggia. Di più, essa si può volgere – almeno da una certa data in avanti – a tutta l’opera di Licini: un’opera nella quale le cesure sono bandite e in cui i ritorni sono frequenti e quasi fatali; un’opera che non è un tragitto teso e lineare, ma trova il suo luogo come a cavallo di una sinusoide, nella quale i nuovi abbrivi trascinano con sé retaggi, ricordi, forse rimpianti del già stato. Nulla sembra, in lui, consumarsi del tutto, o bruciarsi per sempre. Sta probabilmente anche in questa attitudine, dell’intelletto e insieme dell’animo, una parte non piccola della necessità, che toccherà tutti i suoi anni, di tornare su tanti dipinti già licenziati.
Dal ’37-’38 al ’48, e persino oltre, sono stati datati – con discrepanze profondissime, che giungono talora ad allungarsi per tutti i dieci e passa anni che intercorrono fra i due termini estremi – una lunga serie di dipinti capitali: dalla seconda versione di Memorie d’oltretomba al Milionario, da Portafortuna a Merda, dalla Barca degli amanti al Miracolo di San Marr…co, da Notturno a Fiore fantastico, da Errante a Composizione (Marchiori, n. 186), ad altri ancora. Prima degli “Olandesi” e dei “Personaggi”, prima delle “Amalassunte” e degli “Angeli Ribelli”, prima dunque del Licini visionario dell’età perfetta, è appunto in questi dipinti di incerta collocazione cronologica (resa ancor più complessa, non vale quasi la pena di ribadirlo, dall’evidenza con cui il manto della pittura e talune indagini stratigrafiche attestano al di là di ogni dubbio interventi successivi alla prima stesura del dipinto) che si manifesta l’abbandono della geometria, pur sempre stata eterodossa, e si verifica l’adesione del pittore a un’immagine fondata sui “segni rari che non hanno nome”, avvistati nella “landa dell’originario”, “nelle viscere della terra”, nella “regione delle madri”.
Lo storico e filosofo Franco Ciliberti prende ora il posto che, fra mille dubbi del pittore sempre stato renitente all’assioma, aveva occupato Carlo Belli nel panorama di riferimento di Licini. E la sintonia delle nuove tentazioni di Licini con il pensiero e la parola del filosofo lombardo sarà allora intera. Il “primordio” (ossessione tiranna, fra Milano e Roma, di questa – dei “Valori Primordiali” appunto, la rivista diretta da Ciliberti – e d’altre vicende legate tutte ad una vaga idea di “mito”, in quel quarto decennio del secolo, allora al tramonto) si ricongiunge a quanto arrovellava Licini da tempo, in particolare tutta la stagione del simbolismo letterario francese: Lautréamont, Mallarmé, Rimbaud…; accostati a Parigi già alla fine degli anni Dieci, e poi a lungo sopiti negli anni del Milione, e più ancora in quelli delle “Archipitture”. Con Leopardi che riemerge da una mai dimenticata radice marchigiana, occhieggiando a questo strano connubio; e senza fatica si ricongiunge ora a queste veggenze, e assenze, e lunghe distanze tese fra terra e cielo, fra ragione e allucinazione, fra limite e infinitezza: come un padre vecchio e saggio che ripeta un’antica lezione. E non è certo per caso se nasce proprio adesso, trasandata e un po’ superba, la figura del “Leopardi” liciniano, che subito s’erge sulla carta da disegno – luogo primo, sempre, dell’inesauribile immaginario liciniano – volgendo le spalle, enigmatica e noncurante, a chi lo guarda affacciato sull’infinito.
“La cronologia conta ben poco di fronte alla costanza del sogno e alla fedeltà della passione: essa obbedisce soltanto a un tempo poetico”, ha scritto Marchiori nel 1968, licenziando il catalogo generale delle opere. Di questa ammissione, che somiglia molto ad una resa, non può contentarsi chi stia oggi lavorando per porre le basi che consentiranno domani la compilazione di un nuovo catalogo. Al di fuori di quel lavoro e di quella prospettiva, però – di una riconsiderazione dunque globale dell’opera liciniana che si avvalga insieme di più approfondite ricerche storiche e delle risultanze messe a disposizione dalle nuove tecniche di indagini strumentali che tanti frutti stanno dando anche ove riferite a materiali di altra epoca e natura –, e dunque si può dire a tutt’oggi, ogni tentativo di rivedere drasticamente, rispetto ai consapevoli dubbi avanzati da Marchiori e nello stesso 1968 dal binomio Birolli-Passoni, la datazione di singole opere. appare velleitario. Tanto più se alla prudenza nell’avanzarla, quella nuova ipoteca collocazione cronologica, si sostituisca, come pur è stato talora fatto, un’apodittica certezza.


(*) Devo molta parte della mia volontà di pensare a Licini a colloqui fatti da tanto tempo, e mai interrotti, con Claudio Olivieri, che è stato già nel 1968 fra i primi a suggerire ai curatori della storica mostra di Torino la necessità di un ripensamento sull’opera di Licini. Ringrazio inoltre Giuseppe Appella, che mi è stato come il solito vicino nel compimento di questo lavoro.
Nella stesura del testo si sono tenute presenti in particolare le seguenti voci della assai vasta bibliografia su Licini:

- G. Marchiori, La mostra del pittore Licini alla Galleria del Milione, “Corriere Padano”, Ferrara, 29 maggio 1935
- U. Apollonio, Osvaldo Licini, in XXIX Biennale internazionale d’arte di Venezia, catalogo della mostra, Venezia, Giardini di Castello. Alfieri, Venezia, 1958
- G. Marchiori, Osvaldo Licini, in VIII Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, catalogo della mostra, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 1959-1960. De Luca Editore, Roma, 1959
- G. Marchiori, I cieli segreti di Osvaldo Licini, Alfieri, Milano, 1968
- Z. Birolli, [Alcune opere di Licini...], in Osvaldo Licini, catalogo della mostra, a cura di Zeno Birolli e Aldo Passoni, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 1968
- A. Passoni, [Scrivere di Licini…], ibidem
- C.L. Ragghianti, Bologna cruciale 1914, “Critica d’Arte”, XVI, ott.-nov. 1969
Errante, erotico, eretico, a cura di Gino Baratta, Francesco Bartoli e Zeno Birolli (in specie, i saggi di Birolli, Storia e temporalità circolare; Baratta, Il paradossismo di Bruto; Bartoli, Figure dell’incastro e metafore dell’aria nel linguaggio di Licini; e, dello stesso Licini, la scelta degli scritti e delle lettere), Feltrinelli, Milano, 1974
- G. Baratta, La metamorfosi magica di Bruto, in Osvaldo Licini, catalogo della mostra, Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 1980
- F. Gualdoni, Osvaldo Licini. La condizione scalza, catalogo della mostra, Milano, Lorenzelli Arte, 1982
Mario Tozzi, catalogo della mostra, a cura di Marilena Pasquali, Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 1986
- E. Pontiggia, I cieli della fantasia. Opere su carta 1926-1958, catalogo della mostra, Milano, Galleria d’Arte Moderna, 1986
- F. Pirani, Licini e l’Europa. La nascita dell’iconografia angelica, in Licini, catalogo della mostra, Venezia, Galleria della Fondazione Bevilacqua La Masa, 1988
- S. Agosti, Per una semiologia della rappresentazione in Licini, ibidem
- E. Pontiggia, Osvaldo Licini e il “novecento”, in Licini. Gli anni Venti, catalogo della mostra, a cura di Elena Pontiggia e Enrica Torelli Landini, Monte Vidon Corrado, Centro Studi “Osvaldo Licini”, 1992
- F. Gualdoni, Percorso di Licini, in Licini, catalogo della mostra a cura di Flaminio Gualdoni, Luigi Cavadini, Enrica Torelli Landini, Locarno, Pinacoteca Casa Rusca, 1992-1993. Fidia Edizioni d’Arte, Locarno, 1992
- E. Torelli Landini, Osvaldo Licini: percorso bio-bibliografico, ibidem
- E. Pontiggia, Le nature morte di Osvaldo Licini, in “Quaderni Liciniani 2″, Centro Studi “Osvaldo Licini”, Monte Vidon Corrado, 1995
- L. Giudici, Momenti dell’analisi critica sul primo Licini. Dagli esordi al periodo astratto, ibidem
- E. Pontiggia, Licini: gli anni Quaranta, in idem, catalogo della mostra a cura di Elena Pontiggia, Enrica Torelli Ladini, Monte Vidon Corrado, Centro Studi “Osvaldo Licini”, 1996-1997
- E. Torelli Ladini, Nota introduttiva agli scritti di Alberto Sartoris, ibidem
- G. Magnoni, Licini, secondo noi…, in Osvaldo Licini, catalogo della mostra, a cura di Bruno e Matteo Lorenzelli, Milano, Lorenzelli Arte, 2001-2002. Skira, Milano, 2001
- F. D’Amico, Osvaldo Licini, da ‘Bruto’ a Parigi, in Licini. Opere 1913-1929, catalogo della mostra a cura di Fabrizio d’Amico, Marco Goldin, Brescia, Museo di Santa Giulia, 2006-2007. Linea d’ombra Libri, Treviso, 2006
- M. Patti, Catalogo delle opere, ibidem
- I. Amadei, Biografia, ibidem
- M. Patti, Tracce disperse e segni nuovi, Edizioni della Normale, Pisa, 2006
- M. Patti, Il percorso di Osvaldo Licini (1894-1958). Materiali per un nuovo catalogo delle opere, 2 voll., Pisa, Scuola Normale Superiore, a. a. 2007-2008
- M. Patti, Osvaldo Licini e Giuseppe Marchiori. Storia di una amicizia e di un catalogo generale delle opere, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, serie 5, 2009, 1/1

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