Paul Delvaux

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Affabulatore dell’inconscio, intrigante stratega di atmosfere da sogno, Delvaux trova fonte d’ispirazione in quelli che lui considera i suoi due mentori, Giorgio De Chirico, il metafisico “faro” per i surrealisti, e René Magritte, insieme a Delvaux il più grande pittore belga del XX secolo: “Cercavo negli altri l’alimento che mi permettesse di scoprire me stesso. Perciò ho fatto pittura espressionista. Ho fatto pittura come quella di Ensor. C’era qualcos’altro che volevo trovare: fu allora che scoprii Giorgio de Chirico, e fu lui, d’un tratto, a mettermi sulla strada giusta”. Si presenta con queste parole Delvaux, protagonista della stagione del Surrealismo, il movimento d’avanguardia nato nel 1924 col Manifesto di André Breton, che eleva il sonno a stato di coscienza e realtà, con Sigmund Freud inconsapevole profeta: “Automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale.”
Questa dimensione artistica viene indagata dalla nuova mostra della Fondazione Magnani Rocca dal titoloDELVAUX E IL SURREALISMO dal 23 marzo al 30 giugno 2013, a cura di Stefano Roffi insieme al Musée d’Ixelles-Bruxelles, dove l’enigma, perfettamente surreale, sull’adesione o meno dell’artista al dettato del movimento surrealista (egli la negava, contraddicendo una apparente evidenza, definendosi un “realista poetico”) costituisce il tema della mostra stessa che, con circa 80 opere scandite tematicamente (Il paesaggio, L’enigma della ferrovia, l’eterno femminino, Le coppie, La classicità, Gli scheletri) offre anche il confronto con i lavori di accertati surrealisti quali lo stesso Magritte, Max Ernst, Man Ray, oltre al grande De Chirico; con loro Delvaux partecipa a “L’Exposition Internationale du Surréalisme” nel 1938 a Parigi, in un incontro artistico fra i più sorprendenti del Novecento, dopo essere rimasto molto colpito dalle opere che aveva visto alla mostra “Minotaure”, tenutasi al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles nel 1934.
A partire dal 1934, dopo un periodo improntato a interessanti riprese impressioniste ed espressioniste in paesaggi e figure umane, l’artista conferisce alla sua arte una fisionomia definitiva, costruendo una dimensione onirica perfettamente plasmata, esito della fusione dello spazio metafisico di De Chirico coi brani di spaesamento propri di Magritte. La risultante emblematica che si impone nelle sue tele è un’immagine femminile dal corpo infuso di mistero, diafano e spettrale nella sua nudità quasi fosforescente, talora coinvolto in sorprendenti metamorfosi e collocato in luoghi irreali, sospesi in una dimensione di scardinamento della logica temporale, dove architetture dell’antichità classica convivono con reperti della modernità, come treni e stazioni.
Donne che diventano creature arcane, vestali di uno sconfinamento tra il sogno e la mitologia, icone immote dai grandi occhi sgranati sul vuoto, che ricordano i nudi dal cupo sguardo introflesso di Modigliani; una sorta di sensualità “congelata” le rende simili ad automi-femmina creati e programmati da un misterioso demiurgo per destini non rivelati. Tra gli altri temi cari all’artista quello dello scheletro è presente nelle sue opere dall’inizio degli anni Trenta, acquisendo lo “status” di personaggio e divenendo il protagonista – assolutamente partecipe del mondo dei vivi – di scene religiose quali crocifissioni o sepolture, di danze e duelli.
“Il vuoto è lo specchio che mi guarda”, afferma il cavaliere Antonius Block, sfidando a scacchi il signor Morte in una partita dagli evidenti contenuti simbolici; è una celebre scena de Il settimo sigillo, il film di Ingmar Bergman dall’atmosfera affine alle opere di Delvaux, dove l’annullamento identitario rappresenta la cifra di una pittura all’insegna della sospensione, dell’enigma poetico.


L’eterno femminino

Forse, il senso – o il nonsenso – del mondo di Delvaux si rivela proprio nell’incrinatura stridente che si apre tra una lettura “realistica” delle sue figure e una lettura invece abbandonata alla meravigliosa discrezione delle sue invenzioni. Come se lo spettatore si trovasse al cospetto di una serie di oscure allegorie sprovvisto del codice per decifrarle, come se una scena di normalità si trasformasse nell’allegoria di un significato perduto. Il quadro si pone così come intercapedine fra noi e un mondo sconosciuto; la sua funzione non sembra essere quella di stabilire una comunicazione con quel mondo, piuttosto quella di manifestare un’impossibilità di comunicazione.
La visione di ogni quadro di Delvaux lascia il senso di una mancanza, quasi una piccola nostalgia, senza ansia, una specie di distratta serenità; come se questa visione giungesse a confermare una conoscenza rimossa. Le donne imperversano nei dipinti di Delvaux, quasi sempre portatrici caste (?) di nudità; narrano mute le storie di un mondo al femminile, l’inazione tornisce le loro forme di lucente levigatezza, che mostrano con noncurante consapevolezza. Un codice di posture manierate rende astratta la loro presenza, sospesa in un rigoroso linguaggio di sottrazione, in una condotta di verità simbolica, criptogrammi di una vita vagamente metafisica, certamente proiezioni dell’impegnativa figura materna.

Teorema dell’insensatezza

Il luogo è l’altrove, il tempo è il futuro anteriore. Il riferimento certo è De Chirico; tutto il Surrealismo, del resto, gli deve tanto: con i suoi quadri dei primi anni Dieci, egli non inventa soltanto un modo di dipingere, inventa un modo di immaginare che prima non esisteva. I più famosi pittori surrealisti, da Tanguy a Magritte a Ernst allo stesso Delvaux, hanno ammesso che i quadri di De Chirico sono stati per loro una vera rivelazione.
Delvaux deve a De Chirico la “classicità” del suo personale surrealismo; la presenza costante di edifici classici e rinascimentali, di archi e colonne testimonia questo debito. Ancor più importante è la derivazione da De Chirico della sua poetica dell’incongruo, dello straniamento, secondo la quale nel dipinto tutto appare normalizzato, ma l’esame attento delle relazioni tra i personaggi e le cose smaschera una realtà diversa, la traccia di un enigma che resterà tale, per dare corpo a un teorema di insensatezza, a un sogno sostitutivo. Un paradosso, ma forse per Delvaux l’unica via di fuga da verità inconfessabili, alle quali preferì il mistero.

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