Anselm Kiefer
Dice Kiefer: “C’è una tale proliferazione di cose, musica, messaggi, che non esistono più confini da infrangere. Non voglio dire che Duchamp abbia fatto male a esporre il suo orinatoio, la prima volta è stato straordinario, ma la seconda non lo era già più, la terza volta non era altro hee un orinatoio. L’arte e la vita sono due cose molto diverse.” È davvero la fine di un’era.
Dopo il liceo si iscrive a Legge, ma nel 1966 lascia il corso per iscriversi a Pittura. Vive a Friburgo e frequenta lo studio di Peter Dreher poi si trasferisce a Karlsruhe dove avvicina il pittore Horst Antes, che considererà il suo primo e vero maestro. Nel 1972 incontra Joseph Beuys.
Sono gli anni in cui Kiefer inizia una serie di azioni artistiche che definirà "Besetzungen" (Occupazioni). Egli, provocatoriamente, si fa fotografare col braccio teso nel saluto hitleriano davanti a una serie di luoghi della Germania Ovest e della Germania Est che per lui hanno significanza dal punto di vista mitologico e storico.
Da una parte della critica tedesca è tacciato quale neo-nazista, e per molti anni tale etichetta lo accompagnerà creandogli non pochi problemi dal punto di vista espositivo e quindi economico, mentre, altri critici, sempre tedeschi, ne esaltano il coraggio, cioè il come "egli mette il dito nella piaga in quello che è stato l'incubo della Germania nazista".
Nel 1973, dopo aver sposato Julia, sua amica ai tempi dell'università, apre studio a Ornbach e inizia una serie di grandi opere pittoriche titolate "Deutschlands Geisteshelden" (Germania Eroica). Ancora additato da una certa critica tedesca come nostalgico e nazionalista, sebbene nel 1977 venga chiamato ad esporre a Documenta di Kassel, preferisce iniziare a esporre all'estero, dove, invece, la sua arte viene esaltata sia per la grande capacità tecnica, che Kiefer sempre dimostra, sia per i soggetti rappresentati. Nei suoi quadri, per lo più di grande formato, comincia ad applicare sue xilografie e a incollare suoi disegni, che poi amalgama, col resto del rappresentato, ricorrendo a vari espedienti materici di estrazione per lo più povera. Alla fine degli anni settanta comincia a frequentare l'Italia e i maggiori artisti del momento.
Nel 1980 la Biennale di Venezia gli dedicata una mostra personale titolata "Verbrennen-Verholzen-Versenken-Versanden". Nel 1982, a seguito del successo ottenuto dalle prime mostre tenute negli USA, viene di nuovo invitato aDocumenta di Kassel, scatenando, ancora, le critiche negative di molti intellettuali tedeschi. In effetti narrare la storia, in particolare quella scomoda, è da sempre l’interesse principale di Anselm Kiefer, autore di sensibilità e artista che ha fatto del passato dell'Europa quindi, negli ultimi anni, dell'intero pianeta e, soprattutto, delle ombre che ne hanno oscurato le vicende socio-politiche-religiose, i suoi princìpi di studio e i suoi motivi di rappresentazione. Nella seconda metà degli anni ottanta, Kiefer dedica tutta una serie di opere alla storia ebraica, e in particolare alle donne ebree, quelle che hanno perduto la vita nei campi di stermino hitleriani.
Nei quadri di Kiefer non appaiono quasi mai figure umane, egli, infatti, predilige dipingere i luoghi, i paesaggi, gli ambienti dove le tragedie della storia si sono consumate. Gli esseri umani paiono essere fagocitati dal vortice buio del male che hanno fatto a se stessi e al loro prossimo. Sempre alla fine degli anni ottanta comincia una seconda e vasta tournée di mostre ed esposizioni negli USA: a Chicago, a Filadelfia, a Los Angeles e a New York. È ancora in Italia, al Museo Correr di Venezia, nel 1997, alla GAM di Bologna, con un'enorme personale, nel 1999. Dagli anni novanta Kiefer possiede uno studio a Buchen e a Gerusalemme e una casa in Francia. Fra le ultime mostre di rilievo internazionale: "Anselm Kiefer" al Museo Guggenheim di Bilbao, e "Salt of the Earth" alla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova contemporaneamente alla LIV Biennale di Venezia. È Accademico Corrispondente dell’Accademia delle Arti del Disegno nella Classe di Pittura.
Ha realizzato appositamente l'opera Die Grosse Fracht (Il grande carico) per la Biblioteca San Giorgio di Pistoia [1] e l'installazione permanete I Sette Palazzi Celesti presso l' HangarBicocca di Milano.
Il mio preferito tra i lavori di Anselm Kiefer per l’imminente retrospettiva alla Royal Academy è “Tàndaradei”, una monumentale pittura a olio, dove fiori rosa e rossi sembrano scoppiare di vita, dissolversi e avvizzirsi, tutto in una volta. Quando glielo dico, l’artista mi guarda contrito. “L’ho esclusa dall’esibizione, era troppo bella. Troppo.”
Da secoli i pittori si sono divisi sul concetto di bellezza. Ma Kiefer, nato nel sud della Germania negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, ha elaborato il suo lavoro durante un periodo di grande crisi estetica. L’ansia del dopoguerra di ridefinire il ruolo dell'arte e l'affermazione di Adorno che non ci poteva essere poesia dopo Auschwitz.
"Non si può evitare la bellezza in un'opera d'arte", dice Kiefer. In una stanza piena di opere bruciacchiate, superfici spinate, costruite con cenere, piombo, frammenti di ceramiche, libri maltrattati e macchine scassate, che evocano le desolate devastazioni di guerra, ma conservano lirismo inciso nella violenza della loro realizzazione. "Si può prendere il più terribile dei soggetti e automaticamente diventa bello. Quel che è certo è che non avrei mai potuto fare arte su Auschwitz. È impossibile perché il soggetto è troppo grande"
Si tratta di un unico caso, perché Kiefer si è occupato di qualsiasi altra cosa. Negli anni ’60, ha fatto il suo grande debutto come artista di performance: con indosso l’uniforme dell'esercito di suo padre, si fece fotografare, facendo il saluto nazista, in iconiche località europee come il Colosseo a Roma, affrontando ciò che il suo collega artista Joseph Beuys chiama la tedesca "amnesia visiva" dell’Olocausto.
Mezzo secolo più tardi, in questa edizione della “Summer Exhibition” alla Royal Academy, ha mostrato la nuova pittura "Kranke Kunst" ("Arte Malata"), una ripresa di un acquerello del 1974 con lo stesso nome in cui un paesaggio del genere idealizzato dai nazisti era punteggiato di bolle rosa.
Kiefer spiega: "Mi piace il doppio senso. Innanzitutto "Kranke Kunst" è negativa, viene dalla censura nazista di un’arte degenerata. E poi, è vera, perché tutto è malato, la situazione nel mondo è malata ... Siria, Nigeria, Russia. La nostra testa è annebbiata da un malessere generale. Siamo nati e cresciuti male".
Che cosa può fare l'arte?
"L'arte non può aiutare direttamente. L'arte è il modo per rendere la realtà evidente. L'arte è cinica, mostra la negatività del mondo, è la sua prima condanna."
L'arte può essere celebrativa?
"Matisse celebra, ma io ci vedo tanta disperazione."
Kiefer mi dice tutto questo con un’allegra impassibilità in viso, accompagnato a un bicchierino di vodka alle tre del pomeriggio. Ci troviamo nel suo Atelier di Parigi, un ex magazzino di 30.000 metri quadrati. È così ampio che si attraversa in macchina, tra cisterne arrugginite, dipinti abbandonati, elementi casuali fuori dal tempo e cespugli di rose piantate dall'artista. A un certo punto quasi ci scontriamo con una gru che sollevava una lastra di piombo. "Per me, l’enorme non esiste", ammette Kiefer.
Alto e brizzolato, magro e svelto, l’artista si presenta in pantaloncini bianchi e camicia aperta. Ha appena abbandonato i preparativi per lo show di Londra. "E’ noioso per un artista per fare una retrospettiva". Mi offre in cambio un tour del lavoro nel suo atelier. Sculture battute da bombardieri danneggiati sono sparse ovunque nello studio. Le torri di polistirolo per il suo set di nove piani di "In the Beginning" per l'Opéra-Bastille. Centinaia di girasoli in resina giganti, in un comico omaggio a Van Gogh, stanno di guardia al cancello d'ingresso.
Alto e brizzolato, magro e svelto, l’artista si presenta in pantaloncini bianchi e camicia aperta. Ha appena abbandonato i preparativi per lo show di Londra. "E’ noioso per un artista per fare una retrospettiva". Mi offre in cambio un tour del lavoro nel suo atelier. Sculture battute da bombardieri danneggiati sono sparse ovunque nello studio. Le torri di polistirolo per il suo set di nove piani di "In the Beginning" per l'Opéra-Bastille. Centinaia di girasoli in resina giganti, in un comico omaggio a Van Gogh, stanno di guardia al cancello d'ingresso.
"Archaikum, mesozoikum," recita, pronunciando le sillabe, come se recitasse una poesia. Parla bene l'inglese, ma si apre in vere espressioni di piacere quando pronuncia qualche espressione in tedesco. "Mi piacciono queste parole! Quanti milioni di anni hanno? Non lo sai? Tu non conosci la tua età! È presenta la catastrofe nella mia biografia. Ed è quello che si mostra nell’”Età del mondo”. Si torna a molto prima del nostro compleanno. 350 milioni di anni fa un meteorite ha colpito la terra e il 95 per cento della vita si estinta. 350 milioni di anni fa i dinosauri - e tanta gente - sono morti. La storia tedesca? È incominciata con l’’Archaikum’ ".
“Jerusalem”, il riferimento di Kiefer alla mistica ebraica e alla storia, ha attratto manifestazioni contro il blocco israeliano di Gaza. Indossando magliette con il titolo dell’opera, hanno chiesto di rimanere nella galleria per discutere sulle questioni sollevate dal lavoro di Kiefer. La galleria ha chiamato la polizia, dicendo: "Questa è proprietà privata. Siamo qui per vendere arte."
Si tratta di un tradimento alla serietà di Kiefer, un'ammissione che l'arte del XXI secolo è soprattutto merce? Non mi viene in mente nessun’altra figura contemporanea che operi tra arte, denaro, politica e storia in modo così trasparente e con tale equilibrio. È innegabile, e confermato dai risultati d'asta imprevedibili, che la qualità della sua produzione è irregolare.
D'altra parte, la coesione di idee e di tonalità in mostra alla RA, la prima retrospettiva di Kiefer, drammatizza il modo in cui l'impulso concettuale sia alla base di tutti i suoi sforzi materiale, il che significa che tutte le sue opere appartengono a un insieme, come una sorta di “Gesamtkunstwerk”, di un’unica opera d’arte - o addirittura come una “performance in progress”, che ha avuto inizio con il suo Sieg Heil a Roma mezzo secolo fa.
Estratto dall’articolo di Jackie Wullschlager per il Financial Times
IQuando, lavorando a un quadro, non so più a che punto sono né dove sto andando, quando sono in panne, mi dirigo verso la macchina per scrivere e scrivo "qualcosa". Quello scritto ha per me una funzione di soccorso; mi protegge riportandomi all'essenziale. La nascita di un quadro risponde a un processo complesso, e i miei umori cambiano incessantemente nel corso della sua elaborazione. All'inizio passo per stati "fisici" in cui mi sento come rinchiuso nella materia del quadro, faccio tutt' uno con l'esistente. Comincia nell'oscurità, in una sorta di urgenza, una palpitazione. All'inizio ignoro quello che ciò significa, però esso mi spinge ad agire. Allora sono nella materia, nel colore, nella sabbia, nell'argilla, nell'accecamento dell'istante, senza distanza. Ciò che si attua più da vicino, la testa quasi nel colore, quel "qualcosa" informe, è paradossalmente il più preciso. Poi prendo la rincorsa e tento di vedere, di distinguere quel cheè davantia me; dopo, mi chiedo come proseguire il lavoro con ciò che è già stato fatto.
Ormai ho un faccia a faccia con cui confrontarmi. Posso confrontarmi con qualcosa che è là, all'esterno, davanti a me. Il quadro è là, e io sono qui nel quadro. A quello stato subentra immediatamente la delusione, un senso di mancanza. E tale mancanza non viene da quanto non avrei visto o avrei omesso di svelare. Tale mancanza non può essere colmata con l'aiuto di nessun'altra forma. A quel punto potrò riuscire solo facendo riferimento ad altri elementi, tutti altrettanto incerti, che possono essere storici, figurativi o di tutt' altra natura. È un fatto, il quadro assume il mondo a oggetto; è così che si concretizza. Quando è diventato oggetto esso stesso, lo espongo all'aria aperta, al vento e alla pioggia. Mi appello alla natura, che non è redentrice, perché mi aiuti a terminarlo. Ma non c' è solo la natura ad aiutarmi. Anche il linguaggio può farlo. So distinguere un'opera d' arte da un oggetto di artigianato o di design in maniera apodittica, ex cathedra. Ma posso spiegarlo o inculcarlo in altri? No, perché ci saranno sempre degli individui per i quali certe cose sono arte e altre no. Per molti di loro, la moda nell'abbigliamento rientra nell'arte allo stesso titolo di un quadro, un'azione o un'installazione, e lo affermano in maniera perentoria. Poiché, in società, solo l'affermazione costituisce autorità. In quest' ambito non esiste dottrina dominante, né opinione universalmente valida. Io decido e affermo cosa appartiene all'arte e la mia affermazione diventa incontestabile.
Succeda quel che deve succedere! Dobbiamo tener conto che un'opera d' arte può distruggerne un'altra. Per convincercene, riflettiamo sugli stili pittorici, su come l'impressionismo sia succeduto alla pittura accademica, e poi sua volta sia stato detronizzato dall'astrattismo... Ogni corrente artistica è nata dall'imperiosa volontà di reagire contro l'estetica dominante. Come regola generale, e per una sorta di immunità naturale nei propri confronti, l'arte si erge costantemente contro se stessa. Sembra poter esistere solo attraverso la propria negazione. Sottoposta all'autodistruzione, a quel "volere il male", paradossalmente procura il bene.
Ma è concepibile che quest' attacco dell'arte a se stessa sia violento a tal punto che un giorno essa non se ne risollevi e scompaia per sempre? L'arte è permanentemente sottopostaa due tipi di aggressione radicalmente diversi e che, nonostante le loro peculiarità, si congiungono in uno strano modo. L'aggressione che potremmo definire "fatta in casa" è l'aggressione immanente all'arte, che, così come la sua reazione autoimmune, la ingloba in una forma di antiattitudine, respingendola ai margini dell'esistenza. Si dimostrò molto virulenta nei futuristi, in particolare in Ballao Severini che volevano sradicare tutto, arrivandoa preconizzare la distruzione dei musei. E ciò costituì una reale minaccia per il futuro. Infatti l'atto iconoclasta, inizialmente avanguardista, persino rivoluzionario, era diventato una finalità in sé, una strategia di marketing, né più né meno. Un'altra aggressione è percettibile da poco. Proviene dall'universo della moda e da quello del design, che parassitano l'arte impiegando le proprie strategie e ciò facendo la impoveriscono, la volgarizzano. Noi desidereremmo creare qualcosa che fosse al tempo stesso l'inizio e la fine. Ci piacerebbe giungere a quel punto culmine a partire dal quale, da una parte e dall'altra, tutto scende in verticale, e dove la più grande difficoltà è sempre quella di rimanervi.
Ciò è impossibile, perché segue sempre la caduta, inevitabile, la scomparsa, che si producano in un alone dorato o nel nulla. Ma, come abbiamo visto in precedenza, l'autodistruzione è sempre stata lo scopo più intimo, più sublime dell'arte, la cui vanità diventa allora percettibile. Infatti, qualunque sia la forza dell'attacco, e anche quando abbia raggiunto i suoi limiti, l'arte sopravvivrà alle proprie rovine. Nel corso della realizzazione di un quadro c' è sempre un momento in cui ci si dice che non vale niente. Il quadro in divenire, come l'essere, ha perso la sua forma definita per passare dallo stato di compiutezza verso il quasi niente. La tela e i colori sono lì..., e tuttavia esso ha già varcato una frontiera. Si è disfatto sullo sfondo omogeneo degli oggetti che lo circondano. Mi capita di fare questa constatazione il giorno dopo, arrivando allo studio. Mi dico che ho sbagliato strada, che ho condotto il progetto contro un muro.
Estratto dall’articolo di Jackie Wullschlager per il Financial Times
"Sol Invictus" di Kiefer
Anche il titolo, Sol Invictus - come recita la scritta a matita nel bordo superiore - suona trionfante. Anselm Kiefer inserisce spesso parole nelle sue opere. Motti, versi, nomi che citano liriche, luoghi, poeti, miti e dei babilonesi, egizi, classici o nordici. La scrittura, sempre di suo pugno, svolge una funzione ambigua - ironica e dissacrante, oppure solenne, perfino mistica. Offre dell'immagine una chiave di lettura inattesa, talvolta disorientante. Ma le lettere sono anche puri segni, che hanno una funzione sciamanica - come formule magiche, l'abracadabra dell'officiante. Sol Invictus (Sole invitto) rimanda ai culti solari della tarda epoca pagana - a Eliogabalo, a Mitra. È associato alla festa della vittoria della luce sulle tenebre e alle dottrine dell'eterno ritorno.
Kiefer, tedesco, nostro contemporaneo - nato nell'anno della fine della Seconda guerra mondiale e di Hiroshima - ha sempre creato opere d'impatto emotivo immediato, nonostante la complessità concettuale e quasi esoterica che le alimenta. Esperto di cabala e alchimia, ma interessato anche alle scienze (dalla botanica alla fisica nucleare), nella sua opera non ha eluso temi considerati tabù nella seconda metà del XX secolo - la storia tedesca, l'opprimente memoria del nazismo, lo sterminio del popolo ebraico, le eterne domande sull'uomo, la colpa, la morte, Dio. Non si è mai considerato "solo" un pittore, e lavora con la materia e le sue metamorfosi. Come gli alchimisti volevano accelerare la trasmutazione dei metalli vili in oro, così lui ha dipinto e operato col piombo, col fuoco, col sale, con l'acqua, con l'aria e con la cenere - e ha definito questo la sua "magia". Ogni cosa, ogni forma, ogni essere, può diventare altro, e rigenerarsi.
Per tradurre ciò in un discorso visivo, Kiefer ha usato di tutto - minerali, vegetali, architetture. Rottami di motori d'aeroplano, eliche, vetro, mattoni, stufe, paglia, sabbia, peli, unghie, sperma, sci e scarpe di ferro.
Kiefer, tedesco, nostro contemporaneo - nato nell'anno della fine della Seconda guerra mondiale e di Hiroshima - ha sempre creato opere d'impatto emotivo immediato, nonostante la complessità concettuale e quasi esoterica che le alimenta. Esperto di cabala e alchimia, ma interessato anche alle scienze (dalla botanica alla fisica nucleare), nella sua opera non ha eluso temi considerati tabù nella seconda metà del XX secolo - la storia tedesca, l'opprimente memoria del nazismo, lo sterminio del popolo ebraico, le eterne domande sull'uomo, la colpa, la morte, Dio. Non si è mai considerato "solo" un pittore, e lavora con la materia e le sue metamorfosi. Come gli alchimisti volevano accelerare la trasmutazione dei metalli vili in oro, così lui ha dipinto e operato col piombo, col fuoco, col sale, con l'acqua, con l'aria e con la cenere - e ha definito questo la sua "magia". Ogni cosa, ogni forma, ogni essere, può diventare altro, e rigenerarsi.
Per tradurre ciò in un discorso visivo, Kiefer ha usato di tutto - minerali, vegetali, architetture. Rottami di motori d'aeroplano, eliche, vetro, mattoni, stufe, paglia, sabbia, peli, unghie, sperma, sci e scarpe di ferro.
Il trionfo dell’ambiguità
Ha dipinto serpenti, angeli, libri, sterili paesaggi di neve, edifici nazisti arsi dalle fiamme, forni, crogioli, sommergibili, astri, rotaie di treni, parallele che s'incontrano all'infinito e le cui traversine potrebbero essere anche pioli di scale celesti. Ma soprattutto, dopo la prima irrelata apparizione nel 1971 (l'acquerello Uomo disteso con ramo), dal 1995 più volte ha dipinto - o composto con altri materiali - questa stessa scena: una forma verticale accanto al (o dentro il) corpo orizzontale di un uomo. Così essa è divenuta un'immagine ricorrente, che ha progressivamente moltiplicato le sue risonanze simboliche.
La forma verticale può essere una scala che unisce la terra al cielo (come ne Il sogno di Giacobbe del 1996), una linea dal tratto spezzato, o un albero. Ma preferibilmente è un girasole - un unico esemplare o un campo intero (come in Aschenblume, Fiore di cenere, titolo che cita una poesia di Paul Celan, e in L'ordine della notte). Il fiore può nascere dalla mente dell'uomo, dalla sua linfa vitale, dai suoi organi, dal suo sesso o dal suo ombelico. Le forme possono galleggiare in uno spazio neutro e onirico, oppure essere gettate su un suolo d'argilla screpolata, sotto un cielo scuro di nuvole o brulicante di stelle. In Athanor, una delle ultime varianti, del 2007, Kiefer inscrive le tre parole chiave del processo alchemico: "nigredo, rubedo, albedo". Come se volesse esplicitare la sua fonte e il vero soggetto dell'immagine. Sol Invictus si svela allora come una meditazione sulle leggi della natura, la rappresentazione di un passaggio da uno stato all'altro: il corpo dell'uomo è una membrana che connette macro e microcosmo, da cui passano morte e rinascita. Insomma, un rituale alchemico di resurrezione.
A guardare meglio, l'uomo disteso che si abbandona al flusso della vita è sempre lo stesso. Benché sia nudo, non è chiunque. Ha le sembianze di un individuo specifico: Kiefer. È ripreso da una fotografia di parecchi anni prima che lo raffigura mentre medita nella posizione yoga del "cadavere". L'informazione aiuta a decifrare le sue intenzioni, poiché Kiefer maneggia la filosofia e la letteratura con la stessa perizia con cui cauterizza i supporti e sceglie pigmenti, materiali, e dimensioni (spesso, come in questo caso, monumentali, gigantesche). Ma nello stesso tempo è pleonastica. In età moderna, per i pittori - ne fossero consapevoli o ignari - il girasole è un'immagine dell'artista. Il fascino misterioso dei girasoli di Van Gogh (idolatrato da Kiefer nella sua adolescenza), o di quelli macilenti di Schiele, nasce anche da questo. Fiore non ornamentale, ma agricolo, utile come un albero da frutto, il girasole ha radici nella terra, eppure si muove inseguendo la luce. Non è prigioniero del luogo in cui sboccia, ma usa il suolo e l'atmosfera che lo circonda per crescere. Fuor di metafora, partecipa della storia, del tempo in cui gli è dato vivere. Ruota su se stesso, per nutrirsi di sole, e tutto lo aumenta. Si dissecca, ma anche il suo annientamento genera forza creatrice: diventa seme da cui nasceranno altri fiori, liquido, vita. Per me nessuno ha saputo come Kiefer esprimere questa fiera visione del ruolo dell'artista e dell'essere umano con un'immagine così naturale e così potente. Chiamatela pure poesia, o magia.
La forma verticale può essere una scala che unisce la terra al cielo (come ne Il sogno di Giacobbe del 1996), una linea dal tratto spezzato, o un albero. Ma preferibilmente è un girasole - un unico esemplare o un campo intero (come in Aschenblume, Fiore di cenere, titolo che cita una poesia di Paul Celan, e in L'ordine della notte). Il fiore può nascere dalla mente dell'uomo, dalla sua linfa vitale, dai suoi organi, dal suo sesso o dal suo ombelico. Le forme possono galleggiare in uno spazio neutro e onirico, oppure essere gettate su un suolo d'argilla screpolata, sotto un cielo scuro di nuvole o brulicante di stelle. In Athanor, una delle ultime varianti, del 2007, Kiefer inscrive le tre parole chiave del processo alchemico: "nigredo, rubedo, albedo". Come se volesse esplicitare la sua fonte e il vero soggetto dell'immagine. Sol Invictus si svela allora come una meditazione sulle leggi della natura, la rappresentazione di un passaggio da uno stato all'altro: il corpo dell'uomo è una membrana che connette macro e microcosmo, da cui passano morte e rinascita. Insomma, un rituale alchemico di resurrezione.
A guardare meglio, l'uomo disteso che si abbandona al flusso della vita è sempre lo stesso. Benché sia nudo, non è chiunque. Ha le sembianze di un individuo specifico: Kiefer. È ripreso da una fotografia di parecchi anni prima che lo raffigura mentre medita nella posizione yoga del "cadavere". L'informazione aiuta a decifrare le sue intenzioni, poiché Kiefer maneggia la filosofia e la letteratura con la stessa perizia con cui cauterizza i supporti e sceglie pigmenti, materiali, e dimensioni (spesso, come in questo caso, monumentali, gigantesche). Ma nello stesso tempo è pleonastica. In età moderna, per i pittori - ne fossero consapevoli o ignari - il girasole è un'immagine dell'artista. Il fascino misterioso dei girasoli di Van Gogh (idolatrato da Kiefer nella sua adolescenza), o di quelli macilenti di Schiele, nasce anche da questo. Fiore non ornamentale, ma agricolo, utile come un albero da frutto, il girasole ha radici nella terra, eppure si muove inseguendo la luce. Non è prigioniero del luogo in cui sboccia, ma usa il suolo e l'atmosfera che lo circonda per crescere. Fuor di metafora, partecipa della storia, del tempo in cui gli è dato vivere. Ruota su se stesso, per nutrirsi di sole, e tutto lo aumenta. Si dissecca, ma anche il suo annientamento genera forza creatrice: diventa seme da cui nasceranno altri fiori, liquido, vita. Per me nessuno ha saputo come Kiefer esprimere questa fiera visione del ruolo dell'artista e dell'essere umano con un'immagine così naturale e così potente. Chiamatela pure poesia, o magia.
“Uccidete l’arte: rinascerà”
Dall'archivio di "Repubblica", un testo in cui Anselm Kiefer racconta il suo modo di vedere l'opera. E di realizzarla
IQuando, lavorando a un quadro, non so più a che punto sono né dove sto andando, quando sono in panne, mi dirigo verso la macchina per scrivere e scrivo "qualcosa". Quello scritto ha per me una funzione di soccorso; mi protegge riportandomi all'essenziale. La nascita di un quadro risponde a un processo complesso, e i miei umori cambiano incessantemente nel corso della sua elaborazione. All'inizio passo per stati "fisici" in cui mi sento come rinchiuso nella materia del quadro, faccio tutt' uno con l'esistente. Comincia nell'oscurità, in una sorta di urgenza, una palpitazione. All'inizio ignoro quello che ciò significa, però esso mi spinge ad agire. Allora sono nella materia, nel colore, nella sabbia, nell'argilla, nell'accecamento dell'istante, senza distanza. Ciò che si attua più da vicino, la testa quasi nel colore, quel "qualcosa" informe, è paradossalmente il più preciso. Poi prendo la rincorsa e tento di vedere, di distinguere quel cheè davantia me; dopo, mi chiedo come proseguire il lavoro con ciò che è già stato fatto.
Ormai ho un faccia a faccia con cui confrontarmi. Posso confrontarmi con qualcosa che è là, all'esterno, davanti a me. Il quadro è là, e io sono qui nel quadro. A quello stato subentra immediatamente la delusione, un senso di mancanza. E tale mancanza non viene da quanto non avrei visto o avrei omesso di svelare. Tale mancanza non può essere colmata con l'aiuto di nessun'altra forma. A quel punto potrò riuscire solo facendo riferimento ad altri elementi, tutti altrettanto incerti, che possono essere storici, figurativi o di tutt' altra natura. È un fatto, il quadro assume il mondo a oggetto; è così che si concretizza. Quando è diventato oggetto esso stesso, lo espongo all'aria aperta, al vento e alla pioggia. Mi appello alla natura, che non è redentrice, perché mi aiuti a terminarlo. Ma non c' è solo la natura ad aiutarmi. Anche il linguaggio può farlo. So distinguere un'opera d' arte da un oggetto di artigianato o di design in maniera apodittica, ex cathedra. Ma posso spiegarlo o inculcarlo in altri? No, perché ci saranno sempre degli individui per i quali certe cose sono arte e altre no. Per molti di loro, la moda nell'abbigliamento rientra nell'arte allo stesso titolo di un quadro, un'azione o un'installazione, e lo affermano in maniera perentoria. Poiché, in società, solo l'affermazione costituisce autorità. In quest' ambito non esiste dottrina dominante, né opinione universalmente valida. Io decido e affermo cosa appartiene all'arte e la mia affermazione diventa incontestabile.
Succeda quel che deve succedere! Dobbiamo tener conto che un'opera d' arte può distruggerne un'altra. Per convincercene, riflettiamo sugli stili pittorici, su come l'impressionismo sia succeduto alla pittura accademica, e poi sua volta sia stato detronizzato dall'astrattismo... Ogni corrente artistica è nata dall'imperiosa volontà di reagire contro l'estetica dominante. Come regola generale, e per una sorta di immunità naturale nei propri confronti, l'arte si erge costantemente contro se stessa. Sembra poter esistere solo attraverso la propria negazione. Sottoposta all'autodistruzione, a quel "volere il male", paradossalmente procura il bene.
Ma è concepibile che quest' attacco dell'arte a se stessa sia violento a tal punto che un giorno essa non se ne risollevi e scompaia per sempre? L'arte è permanentemente sottopostaa due tipi di aggressione radicalmente diversi e che, nonostante le loro peculiarità, si congiungono in uno strano modo. L'aggressione che potremmo definire "fatta in casa" è l'aggressione immanente all'arte, che, così come la sua reazione autoimmune, la ingloba in una forma di antiattitudine, respingendola ai margini dell'esistenza. Si dimostrò molto virulenta nei futuristi, in particolare in Ballao Severini che volevano sradicare tutto, arrivandoa preconizzare la distruzione dei musei. E ciò costituì una reale minaccia per il futuro. Infatti l'atto iconoclasta, inizialmente avanguardista, persino rivoluzionario, era diventato una finalità in sé, una strategia di marketing, né più né meno. Un'altra aggressione è percettibile da poco. Proviene dall'universo della moda e da quello del design, che parassitano l'arte impiegando le proprie strategie e ciò facendo la impoveriscono, la volgarizzano. Noi desidereremmo creare qualcosa che fosse al tempo stesso l'inizio e la fine. Ci piacerebbe giungere a quel punto culmine a partire dal quale, da una parte e dall'altra, tutto scende in verticale, e dove la più grande difficoltà è sempre quella di rimanervi.
Ciò è impossibile, perché segue sempre la caduta, inevitabile, la scomparsa, che si producano in un alone dorato o nel nulla. Ma, come abbiamo visto in precedenza, l'autodistruzione è sempre stata lo scopo più intimo, più sublime dell'arte, la cui vanità diventa allora percettibile. Infatti, qualunque sia la forza dell'attacco, e anche quando abbia raggiunto i suoi limiti, l'arte sopravvivrà alle proprie rovine. Nel corso della realizzazione di un quadro c' è sempre un momento in cui ci si dice che non vale niente. Il quadro in divenire, come l'essere, ha perso la sua forma definita per passare dallo stato di compiutezza verso il quasi niente. La tela e i colori sono lì..., e tuttavia esso ha già varcato una frontiera. Si è disfatto sullo sfondo omogeneo degli oggetti che lo circondano. Mi capita di fare questa constatazione il giorno dopo, arrivando allo studio. Mi dico che ho sbagliato strada, che ho condotto il progetto contro un muro.
Biografia in breve
Anselm Kiefer, una delle figure più importanti del movimento artisticoNeo-espressionista, nasce a Donaueschingen in Germania l'8 Marzo1945.
Nel 1965 intraprende studi di legge presso l'Università di Friburgo che abbandona l'anno dopo per studiare arte frequentando l'accademie d'arte a Friburgo, poi a Kunstakademie di Karlsruhe con la Horst Antes e a Dusseldorf, allievo dell'artista concettuale Joseph Beuys.
E' proprio Joseph Beuys , che lo incoraggiato all'uso di enormi tele e ad inserire nei suoi lavori una serie di simboli visivi da cui poteva commentare con ironia e sarcasmo alcuni aspetti tragici della storia e della cultura tedesca, in particolare quella del periodo nazista.
Nel 1969 Anselm Kiefer realizza un ciclo di opere denominate "Besetzungen" (Occupazioni): si fa fotografare, con il braccio alzato nel saluto di Hitler, dinnanzi a diversi luoghi che per lui assumono importanza dal punto di vista storico o mitologico.
Parte della critica tedesca, che non capiscono il senso della sua pittura, lo accusa quale neo-nazista e per molti anni questa etichetta lo accompagnerà creandogli non pochi problemi dal punto di vista espositivo ed economico, mentre, altri critici, sempre tedeschi, ne esaltano il coraggio, per aver saputo mettere il dito nella piaga in quello che era stato l'incubo della Germania nazista.
Nei dipinti di questo periodo Anselm Kiefer accosta disegni ingenui a colori cupi e grossolani che emozionano per le loro fantasiose allusioni al nazismo; nel 1970 dipinge anche una serie di scorci di paesaggio della cupa campagna tedesca, piena di solchi lungo una raggelante prospettiva lineare, altamente drammatiche.
Nel 1971 il pittore si sposa e si stabilisce a Ornbach in un ex edificio scolastico che attrezza a studio e dove le austere travature in legno dell'attico diventano le protagoniste di grandi tele del 1973 (Deutschlands Geisteshelden, Germania eroica ).
Attorno al 1974 la sua tecnica pittorica lo porta ad inserire nelle sue tele in sovrapposizione, spessi strati di colore, lacca e xilografie che realizza lui stesso.
Negli anni Ottanta, dopo aver esposto nel padiglione tedesco della Biennale di Venezia il ciclo Verbrennen (Bruciare)-Verholzen (Lignificare)-Versenken (Lavare)-Versanden (Insabbiare), comincia a dipingere interni e paesaggi molto intensi e realisti, grazie all'utilizzo di dispositivi di prospettiva e l'incorporazione sulla superficie della tela dipinta di originali composizioni.
Anche se per Kiefer il soggetto preferito dei suoi quadri è la storia della Germania Nazista, in quadri come "Interiors" (1981), la gamma dei suoi temi si amplia per includere riferimenti alla storia ebraica ed egizia, come nel grande dipinto "Osiride e Iside" (1985-87) .
Tra la fine del 1987 e l'inizio del 1989 le opere di Kiefer sono state protagoniste di una lunga tournee di mostre negli USA: Chicago, Philadelphia, Los Angeles e New York ed alla fine anni '90, importanti retrospettive hanno luogo anche al Museo Correr di Venezia (1997) e alla Galleria Comunale d'Arte Moderna e Contemporanea di Bologna (1999).
Dagli anni '90 Anselm Kiefer divide il suo studio tra Buchen e Gerusalemme; dal 2000 l'artista è stato impegnato nella monumentale opera "I Sette Palazzi Celesti" che ha realizzato nella navata più grande all'interno del corpo centrale dell'HangarBicocca a Milano che ha aperto per la prima volta le porte al pubblico nel 2004.
Ispirandosi alla mistica ebraica della Cabala, il libro della vita, l'artista ha creato sette torri monumentali in cemento armato e piombo, che simboleggiano l'esperienza mistica dell'ascensione attraverso i sette livelli di spiritualità.
Emblemi della condizione umana, le torri di Kiefer sono insieme architetture reali, abitabili, diroccate dal tempo e dall'incuria degli uomini e dimenticate dalla storia.
Le grandiose installazione dell'artista vengono realizzate in continuazione negli spazi museali di tutti i continenti.
Nel 1965 intraprende studi di legge presso l'Università di Friburgo che abbandona l'anno dopo per studiare arte frequentando l'accademie d'arte a Friburgo, poi a Kunstakademie di Karlsruhe con la Horst Antes e a Dusseldorf, allievo dell'artista concettuale Joseph Beuys.
E' proprio Joseph Beuys , che lo incoraggiato all'uso di enormi tele e ad inserire nei suoi lavori una serie di simboli visivi da cui poteva commentare con ironia e sarcasmo alcuni aspetti tragici della storia e della cultura tedesca, in particolare quella del periodo nazista.
Nel 1969 Anselm Kiefer realizza un ciclo di opere denominate "Besetzungen" (Occupazioni): si fa fotografare, con il braccio alzato nel saluto di Hitler, dinnanzi a diversi luoghi che per lui assumono importanza dal punto di vista storico o mitologico.
Parte della critica tedesca, che non capiscono il senso della sua pittura, lo accusa quale neo-nazista e per molti anni questa etichetta lo accompagnerà creandogli non pochi problemi dal punto di vista espositivo ed economico, mentre, altri critici, sempre tedeschi, ne esaltano il coraggio, per aver saputo mettere il dito nella piaga in quello che era stato l'incubo della Germania nazista.
Nei dipinti di questo periodo Anselm Kiefer accosta disegni ingenui a colori cupi e grossolani che emozionano per le loro fantasiose allusioni al nazismo; nel 1970 dipinge anche una serie di scorci di paesaggio della cupa campagna tedesca, piena di solchi lungo una raggelante prospettiva lineare, altamente drammatiche.
Nel 1971 il pittore si sposa e si stabilisce a Ornbach in un ex edificio scolastico che attrezza a studio e dove le austere travature in legno dell'attico diventano le protagoniste di grandi tele del 1973 (Deutschlands Geisteshelden, Germania eroica ).
Attorno al 1974 la sua tecnica pittorica lo porta ad inserire nelle sue tele in sovrapposizione, spessi strati di colore, lacca e xilografie che realizza lui stesso.
Negli anni Ottanta, dopo aver esposto nel padiglione tedesco della Biennale di Venezia il ciclo Verbrennen (Bruciare)-Verholzen (Lignificare)-Versenken (Lavare)-Versanden (Insabbiare), comincia a dipingere interni e paesaggi molto intensi e realisti, grazie all'utilizzo di dispositivi di prospettiva e l'incorporazione sulla superficie della tela dipinta di originali composizioni.
Anche se per Kiefer il soggetto preferito dei suoi quadri è la storia della Germania Nazista, in quadri come "Interiors" (1981), la gamma dei suoi temi si amplia per includere riferimenti alla storia ebraica ed egizia, come nel grande dipinto "Osiride e Iside" (1985-87) .
Tra la fine del 1987 e l'inizio del 1989 le opere di Kiefer sono state protagoniste di una lunga tournee di mostre negli USA: Chicago, Philadelphia, Los Angeles e New York ed alla fine anni '90, importanti retrospettive hanno luogo anche al Museo Correr di Venezia (1997) e alla Galleria Comunale d'Arte Moderna e Contemporanea di Bologna (1999).
Dagli anni '90 Anselm Kiefer divide il suo studio tra Buchen e Gerusalemme; dal 2000 l'artista è stato impegnato nella monumentale opera "I Sette Palazzi Celesti" che ha realizzato nella navata più grande all'interno del corpo centrale dell'HangarBicocca a Milano che ha aperto per la prima volta le porte al pubblico nel 2004.
Ispirandosi alla mistica ebraica della Cabala, il libro della vita, l'artista ha creato sette torri monumentali in cemento armato e piombo, che simboleggiano l'esperienza mistica dell'ascensione attraverso i sette livelli di spiritualità.
Emblemi della condizione umana, le torri di Kiefer sono insieme architetture reali, abitabili, diroccate dal tempo e dall'incuria degli uomini e dimenticate dalla storia.
Le grandiose installazione dell'artista vengono realizzate in continuazione negli spazi museali di tutti i continenti.
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