andrea de carlo

"Da Calvino allo Strega. Il (mio) mondo dei libri"

Quarant'anni di romanzi, ora ripubblicati: è uno dei pochi scrittori italiani a tempo pieno

Andrea De Carlo: 65 anni (tra poco), due case (una a Camogli, dove vive, e una a Milano, dove lo incontro, in una casa di ringhiera sui Navigli molto fané), 19 romanzi dal 1981 a oggi, tre editori diversi, quasi 40 anni di lavoro fra editoria, cinema, tv. Una carriera capolavoro.
Lei vive dei suoi libri, senza altri lavori.
Siete pochi. Come si fa?
«Il mio primo romanzo, Treno di panna, ebbe ottime critiche anche grazie al fatto che Italo Calvino scrisse la nota di copertina, ma le vendite furono modeste. Finito il secondo libro andai da Erich Linder, il principe degli agenti letterari. Che lavoro fai?, mi chiese. Vorrei scrivere, dissi. Mi gelò: Impossibile in Italia. Scrivere è sempre il secondo lavoro».
Che cosa fece?
«Prima mi demoralizzai. Poi mi arrabbiai. Poi dissi: Perché impossibile?. Presi la cosa come una sfida. E con il terzo romanzo, Macno, conquistai un pubblico più ampio. Diventando scrittore a tempo pieno».
Oggi quanto vende?
«L'imperfetta meraviglia, uscito l'anno scorso, 100mila copie. Poi dipende, ma raramente sotto le 80mila. Due di due, dall'89 a oggi, un milione e mezzo».
Ora La nave di Teseo ripubblica tutti i suoi romanzi in una collana speciale. Diciannove sono tanti. Se dovesse sceglierne solo tre?
«Treno di panna, perché è stato il primo. Due di due, perché ancora oggi moltissimi lettori si ritrovano nella storia e nei suoi due protagonisti. E Villa Metaphora, del 2013, un romanzo dalla struttura molto complessa, lungo mille pagine, 14 punti di vista diversi, sette lingue di cui una inventata...».
Mi faccia capire: è romanziere, ha fatto il fotografo, assistente di Oliviero Toscani, regista, musicista e ora ha disegnato tutte le copertine delle nuove edizioni. Come si fa?
«Mai vivere solo in un mondo fatto di libri e scrittori. Mi ha sempre interessato frequentare altri linguaggi. Comunque cinema, fotografia, disegno, musica sono divertimenti, una vacanza tra un libro e l'altro. La mia vita è la scrittura».
Debutta nel 1981. Ha attraversato quasi quattro decenni di mode, tendenze, gusti del pubblico, rivoluzioni del mercato del libro. Come è cambiata l'editoria?
«Quando finii Treno di panna, il terzo romanzo che scrivevo ma il primo in cui riconoscevo una mia voce - gli altri due non so neppure più dove siano - lo mandai a diversi editori, senza risposta. Poi un amico lo portò all'Einaudi e lì accadde una cosa strana. Prima mi rispose Natalia Ginzburg, rifiutandolo. Poi Calvino, a cui invece piacque molto. E il libro passò, incredibilmente».
Perché incredibilmente?
«Perché Einaudi allora era un editore molto snob. Diciamo che l'aspetto commerciale era secondario rispetto all'ambizione di pubblicare i libri che andavano pubblicati, vuoi per ragioni puramente letterarie, vuoi magari ideologiche».
Tipo?
«Beh, mi ha sempre stupito che uno dei migliori romanzi italiani di sempre, Il partigiano Johnny, non abbia trovato accoglienza con Fenoglio in vita. Forse perché quel libro raccontava una versione della Resistenza non conforme a quella ufficiale...».
Era un'editoria più selettiva rispetto a oggi.
«Molto di più. Spesso implacabile. Valeva per Einaudi, ma un po' per tutti gli editori. Poi le maglie progressivamente si sono allargate».
E lei riuscì a passare.
«Io, Del Giudice, Tondelli, quelli che negli anni Ottanta erano gli scrittori giovani. Fossimo arrivati dieci anni prima non saremmo passati, troppe chiusure».
Dieci dopo sarebbe stato più facile, però. E oggi ancora di più.
«Ma lo sa qual è il più grande successo di Einaudi oggi? Il libro di ricette di Cannavacciuolo. Pensi cosa direbbe Giulio Einaudi... Ora, lasci stare questo esempio. Voglio dire che ora gli editori preferiscono puntare su personaggi già famosi mediaticamente, che fanno vendere, e quindi ecco le cataste di libri di cantanti, giornaliste, calciatori, dj...».
Meglio un romanzo mediocre di un vip, che un buon romanzo di uno sconosciuto.
«Sta semplificando, ma neanche troppo. È vero soprattutto per i grandi editori, che seguono logiche puramente commerciali. I medi e piccoli lavorano su scale diverse, cercano anche la qualità».
Gli editor di ieri e quelli di oggi. Differenze? Hanno mai messo mano nei suoi libri? Qual è il raggio d'azione di un buon editor?
«Il mio primo e unico editor fu Calvino, che intervenne forse su cinque parole. Rispettò totalmente il mio modo di scrivere, senza cercare di modellarlo sul suo. Ma ci sono casi in cui l'editor è di fatto un co-autore. Ecco: prendi Gordon Lish che taglia a metà ogni frase di Carver o Susannah Clapp che riscrive Chatwin, beh, io metterei entrambi i nomi in copertina. Comunque, per tornare a me: io usavo un italiano anomalo, anglismi, espressioni colloquiali... Calvino mi disse: quello è il tuo stile, tienilo. Lesse con attenzione anche il mio secondo libro, Uccelli da gabbia e da voliera, ma di nuovo senza intervenire. Da lì, ho sempre lavorato per conto mio».
E arrivò Macno, 1984. La storia di un dittatore giunto al potere grazie a un uso spregiudicato della televisione. È stato facile pensare, dopo, a Berlusconi.
«Vivevo negli Stati Uniti e mi capitò di parlare con un consulente all'immagine di un candidato governatore. Oggi si chiamano spin doctor. Mi colpì il fatto che si potessero applicare le tecniche del marketing di prodotto alla politica. E provai a immaginare la cosa in Italia».
Fu una profezia?
«Ma no. Era l'83, '84. Berlusconi non era ancora entrato in politica. Poi lui fu il primo, ma certo non l'unico. Prima di lui avevano lottizzato la Rai, lui usò le sue televisioni in modo più efficace. Certo, mi fece sorridere il fatto che io, romanziere, avessi anticipato i politologi...».
E iniziò a vendere molto.
«Sì, ma anche a essere stroncato. Ero passato a Bompiani, uscendo dall'area protetta di Einaudi. Io sono sempre stato percepito come un autore che tocca anche temi sociali, ma fuori dagli steccati politici. E il fatto che concedessi un certo fascino al mio dittatore, non piacque. E poi figurati: Macno era sia contro i fascisti sia contro i comunisti. Apriti cielo. E l'attacco ideologico si travestì da attacco letterario. Persi l'appoggio della critica, ma guadagnai i miei lettori».
Poi arrivò Due di due, 1989. Un longseller. Meglio vendere e non essere recensito o entrare nei manuali di Letteratura e non vendere?
«Meglio vendere. Un libro che non vende serve al narcisismo del suo autore. Il senso di un romanzo si completa solo nel momento in cui incontra il lettore. Questo non significa che bisogna scrivere inseguendo commercialmente il pubblico. Ma neppure che bisogna scrivere per piacere ai salotti e ai critici».
Esistono ancora i salotti letterari?
«Esistevano eccome, ma qualche decennio fa. A Roma, quello della Bellonci e Moravia, poi di Nuovi argomenti. A Milano, quelli dei grandi editori. A Torino, il giro einaudiano, dove spesso si giudicava tutto attraverso il filtro ideologico del vecchio Pci. Era un circuito chiuso e protetto, editore-autore-recensore. Lo stesso succedeva nel mondo dell'arte e del cinema. A suo modo era una mafia culturale. Oggi è di fatto sparita, o comunque ha perso potere. Quando ho cominciato a pubblicare io era già ridotta a una parodia di se stessa, ma fino a tutti gli anni '70 era stata molto influente».
Nel 2009 lei si è dimesso dalla giuria del premio Strega denunciando le manipolazioni dei grandi gruppi editoriali. Le mafie letterarie ci sono ancora...
«Nell'82 partecipai allo Strega con Uccelli da gabbia e da voliera, presentato da Calvino e Fellini, e arrivai secondo dopo Parise con Sillabario n. 2. Si sapeva già prima che avrebbe vinto lui. Ma figurati quale poteva essere per me il problema... Io subito dopo Parise: cosa potevo volere di più? Però da quell'anno entrai nella giuria. E iniziai a vedere da vicino la raccolta dei pacchetti di voto, le pressioni, le telefonate interessate. Era insopportabile. Dopo qualche anno mi dimisi e spiegai perché. Ci fu un polverone, e poi rimase tutto com'era. E com'è oggi. Io, intanto, sono sparito dallo Strega. E non ho intenzione di tornarci».
Ha criticato anche la tv, parlando di appiattimento, linguaggio deteriore, banalizzazione. Poi però nel 2013 ha partecipato come giudice a Masterpiece, su Raitre.
«Criticavo la tv sapendo che aveva un potenziale fantastico ma usato male. E ne conoscevo la potenza: la mia svolta nelle vendite avvenne dopo un passaggio a Domenica In con Pippo Baudo. Accettai di partecipare a Masterpiece perché pensavo fosse una buona occasione per parlare di libri, speravo potesse diventare un laboratorio di scrittura. Invece era solo un talent show. Con le sue regole: la tipizzazione dei concorrenti - la sexy, il problematico... - e anche di noi giudici. A me toccò il ruolo del cattivo. E divenni ancora più antipatico di quanto già non appaia...».
Però al pubblico dei lettori piace molto. Lo scrittore-fighetto.
«Ma va'. Se ho molte lettrici donne, è perché leggono più degli uomini...».

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