antonio finelli

Nei volti di Finelli il tempo brucia la vita

I ritratti di anziani diventano maschere con occhi vuoti. Come le statue antiche

L'operazione più intelligente che poteva compiere un artista dotato come nessuno nel disegno è quella decisa da Antonio Finelli.
La matita scruta, definisce, incide; la carta bianca si anima di forma, e vive. Finelli sceglie come modelli volti di anziani solcati dalle rughe: sono persone conosciute, di un mondo destinato rapidamente a scomparire. Ma ora, per sempre, eternate nel segno di Finelli. L'attrazione per i vecchi ricorda quella di un altro eccellente disegnatore dal temperamento più lirico e intimista: Andrea Martinelli. I due artisti sono ispirati dalle carte geografiche dei volti degli anziani e da una attitudine quasi religiosa nel contemplarli. Nei volti dei vecchi c'è il tempo, c'è la storia; ma c'è anche un legame antico con le proprie radici. È questo il sentimento che muove Martinelli.
In Finelli, invece, i vecchi non sono soltanto i propri vecchi; né egli circoscrive un lessico famigliare, un oscuro ritorno alle origini. I vecchi sono il popolo, un mondo di persone vicine, destinate a estinguersi, e di cui egli intende commemorare l'esistenza, nel suo perduto Molise, come in ogni luogo del mondo. Le giovinezze sono diverse, nuove, vitali. La vecchiaia ci fa uguali. «Expecto donec veniat immutatio mea». L'immutatio è la morte, e, prima, la vecchiaia. Un giovane. I vecchi. Nella Vecchia di Giorgione leggiamo: «col tempo». Di lì parte, e dal sentimento del tempo implacabile, come memento mori davanti al trionfo del tempo, Antonio Finelli.
Il suo metodo è quello del naturalista, del classificatore. Ma non vuole rischiare di ridurre la sua impresa a quella di uno scienziato o di un antropologo; e così, sul piano creativo, ricorre al non finito. A ben guardare, il suo non finito non è la tecnica adottata da Michelangelo fino ai neoclassici, ma è uno stacco netto, una mutilazione formale. In letteratura si direbbe una preterizione. Per consentirsi un disegno perfetto, impeccabile, minuzioso, Finelli adotta una tecnica negazionistica. La realtà presente dei vecchi è già frammentaria, consumata; attraverso questo espediente del vuoto Finelli si concederà la massima definizione di ciò che vede e di ciò che è; e il nulla. Il nulla dialoga con il tutto. Esiste. Mentre la nitidezza del segno pretende di fare concorrenza alla fotografia.
Finelli non vuole correre questo rischio. Va oltre la fotografia, e rischia di commuoverci nel descrivere la pelle avvizzita, le bocche rattrappite e sdentate, la zona degli occhi con occhiali inesorabilmente stagliati contro un fondo bianco. Finelli non è interessato alle anime e alla psicologia, gli basta la superficie sulla quale si muove come un esploratore del deserto. Quegli occhi vuoti! Quelle labbra rattrappite! Quella verità ineludibile! C'è profonda pietà nello sguardo di Finelli; ma è perché egli guarda la realtà per quello che è, e quei volti veri si fanno maschere, hanno gli occhi come le statue antiche, vuoti e suggestivi. A Finelli basta una parte della tessitura di un volto. All'improvviso la luce solarizza e brucia una parte: ciò che resta se ne esalta, e lo sottrae a un realismo facile come quello di Teofilo Patini. Questione di risparmio. Anche la declinazione sentimentale che potrebbe accompagnare la memoria di quei volti. Essi si trasformano in fantasmi, in apparizioni. La loro essenza è nel vuoto. In molti casi questo viaggio verso il nulla è sottolineato dagli occhiali e, forse meglio, dalle loro montature. Oltre alle lenti non ci sono mai gli occhi ma il vuoto, il niente.
Il frammento di volto che vediamo, allora, è come un reperto archeologico di una umanità presente e vivente, che ci appare con evidenza come la maschera di Agamennone a Micene, e ci parla dall'infinito silenzio del tempo. Il non essere dà senso all'essere, lo fa esistere non come fenomeno ma come noumeno, come essenza della umanità, sul punto di perdersi. Forse da questo deriva una impalpabile sensazione di nostalgia che questi volti trasmettono. E non perché si proiettino verso la morte. Ma perché sono, comunque, testimonianze di vita. E a quel mondo di fantasmi, presenti e vivi, Finelli si affida... Ne Il tempo in posa Gesualdo Bufalino pubblica quattrocento lastre fotografiche fra le quali l'immagine di un vecchio che tiene un libro dal titolo: «Quando noi morti ci destiamo». I vecchi di Finelli sono perpetuamente desti. Fissi davanti alla morte.

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