palladino mimmo

Sommo sacerdote di una perduta religione verosimilmente pre-romana, protagonista alla fine degli anni Settanta del ritorno alla pittura eppure il più scultore degli artisti della Transavanguardia, maestro metafisico, metastorico, mediterraneo come pochi, sebbene nato (nel 1948) e cresciuto non sulla costa ma nel Sannio alpestre e longobardo («I beneventani trasportano nel Sud qualche caratteristica dei trentini», scriveva con un certo sprezzo del pericolo Guido Piovene).
In un recente testo pieno di vezzi, corsivi, virgolette inutili e trattini heideggeriani, faticoso da decifrare e però necessario, Massimo Cacciari definisce Mimmo Paladino «artista mitografo», creatore di «maschere di antenati sconosciuti» e di misteriosi segni interpretabili come «geroglifici di un eterno».
Quest'anno Paladino ha riempito il centro di Brescia di sculture, una delle quali è apparsa più eloquente di altre: l'alta figura di marmo nero collocata in Piazza della Vittoria dove fino al 1945 risiedeva la statua dell'Era Fascista, voluta da Marcello Piacentini, elogiata da Benito Mussolini e poco apprezzata dai bresciani che, per via del colore, la chiamavano «Bigio». Qualcuno, sempre per via del colore, ha soprannominato la nuova stele «Negher», e trovo bello l'appropriarsi popolare, per via onomastica, di un'opera d'arte contemporanea. Oggi quasi tutte le opere, anche di artisti italiani, hanno un titolo in inglese oppure ostentano l'assenza del medesimo con l'insopportabile Untitled, parola che esprime il desiderio di non parlare, di non comunicare alcunché. Paladino invece parla, all'ultimo piano di un vecchio palazzo del centro di Milano, fra quadri in lavorazione e nuvole di fumo che riportano al tempo in cui scrittori e pittori (mi viene in mente Guttuso) avevano sempre la sigaretta in bocca.
Arthur Danto, fra l'altro grande estimatore della sua Montagna di sale, di un'opera di Andy Warhol scrisse che «la differenza tra un Brillo Box e un'opera d'arte che consiste in un Brillo Box è una certa teoria dell'arte. È la teoria che lo trattiene nel mondo dell'arte». Condivide?
«Certamente no, nell'arte codificata non ci sono tracce dell'arte spontanea, dell'arte popolare radicata nello spirituale. A Monte Sant'Angelo, sul Gargano, la famosa grotta dell'Arcangelo è istoriata dalle impronte delle mani degli antichi pellegrini: per me quella è arte, non posso non trarne delle letture artistiche».
A proposito di criteri di valutazione, io trovo degradante che il valore di un artista ormai corrisponda al suo prezzo.
«La critica d'arte si è rifugiata in un'elaborazione molto individualistica. Una critica di tipo analitico quasi non esiste più, manca qualcuno che spieghi perché in un determinato momento, in un determinato contesto ci sono quel segno e quel colore. Si pensa solo alle scalate curatoriali. Non per fare della nostalgia, ma oggi ci sono meritocrazie strane intorno alle direzioni di Biennali e musei...».
Un vuoto critico che si può riempire con qualsiasi pieno economico...
«Sì, se a un'asta l'opera di un artista viene venduta a un milione, tutti credono in quell'artista».
Chiedo a ogni mio interlocutore se è per «l'art pour l'art» oppure se l'arte deve prendere parte. Un'opera come la sua Porta di Lampedusa, sullo scoglio degli sbarchi dall'Africa, è già una risposta?
«Non c'è una legge, una regola generale, c'è una necessità. Picasso prima ha dipinto frutta e belle donne e poi ha dipinto Guernica. Siamo a Milano e qui c'era Enrico Baj, molto legato all'impegno civile e però anche molto espressivo. Ci sono circostanze che, se non si è completamente sordi al richiamo sociale, fanno scattare determinati lavori. Dipingere quadri ispirati alla tragedia di Falcone e Borsellino fu per me una scelta immediata. E quando Arnoldo Mosca Mondadori mi chiese di pensare a un simbolo per la storia dei migranti, subito pensai alla Porta di Lampedusa».
Come mai i suoi cavalli sono senza cavaliere? Questa assenza immagino ci possa dire qualcosa: ma cosa?
«I miei cavalli non sono fatti per galoppare, per essere cavalcati, sono statici, sono architetture, archetipi. Sono forme pure, quelle che in fondo volevano anche Andrea del Castagno, Piero della Francesca e Paolo Uccello quando dipingevano i loro cavalli».
Se non fossero stati costretti a metterci sopra dei condottieri... Come mai a Modena ce l'hanno col suo cavallo messo davanti alla ex Manifattura Tabacchi?
«La città un po' alla volta se ne sta appropriando e chiede al mercante, ossia al legittimo proprietario, di donarlo. Ma un mercante è un mercante, basta la parola».
Giusto: non si capisce perché ad artisti, galleristi e, mi permetto il caso personale, scrittori, venga chiesto così spesso di lavorare gratis.
«Quel cavallo è stato appositamente realizzato per quella piazza. Quando la vidi rimasi colpito perché è una piazza metafisica e allora pensai di incastrare nel corpo del cavallo il simbolo di Modena, la trivella».
Lei ha sempre avuto fitte frequentazioni con artisti dei più svariati campi e penso a Dalla, De Gregori, Brian Eno, Giuseppe Conte, Mario Martone, adesso Massimo Bottura...
«Giuseppe Conte è stato uno di quegli incontri immediatamente positivi e creativi, insieme abbiamo fatto una cartella di incisioni dedicate a Don Chisciotte. Poi abbiamo fatto un oratorio, ha scritto dei testi su una mia idea che adesso vorrei riprendere, devo chiamarlo. Bottura è sempre stato incuriosito dalla mia arte, in ottobre ci siamo trovati entrambi a Napoli e lui mi ha detto: Fammi compagnia in questa campagna per il cibo, aiutami ad aprire un refettorio, una mensa sociale».
E Dalla-De Gregori?
«Dopo il tour di Banana Republic si vedevano meno. Ma Lucio veniva a trovarmi a Paduli e una volta venne anche De Gregori, si ritrovarono e scattò la scintilla per rifare un tour insieme».
Dalla era un suo collezionista.
«Lucio era un raccoglitore, raccoglieva qualunque cosa lo colpisse, al di là della qualità. Mentre De Gregori è un collezionista raffinato con una sua precisa linea culturale, appassionato ai disegni di architettura».
Lei quarant'anni fa è stato un protagonista del ritorno alla pittura.
«Nel '77 feci una piccola tela intitolandola Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro, e la esposi in una galleria di Torino che aveva esposto l'arte povera. Ma non era una polemica contro l'arte povera, né un ritorno programmatico alla pittura: mi ero stancato dell'azzeramento totale del segno, volevo una maggiore libertà espressiva».
Ora stiamo vivendo un nuovo ritorno alla pittura, però in formato gigante. Mi riferisco alla street art, ai muralisti.
«È la coda di una coda di un fenomeno americano di trenta e più anni fa. Non mi piaceva molto nemmeno Basquiat, non mi sembrava corretto trasportare sulla tela un linguaggio nato sui vagoni della metropolitana. La mia domanda era: facciamo gli incendiari o facciamo i pompieri?».
Essere italiani, nel mondo dell'arte contemporanea, è davvero penalizzante come si dice?
«Oggi come sempre. Ne parla già de Chirico nelle sue memorie: Devo fare una mostra e lo stato non mi dà una lira neanche per gli imballaggi. Gli artisti soffrono e anche i nostri musei che non possono comprare, non possono competere. A Milano non si riesce ad avere un museo dell'arte contemporanea e non si capisce perché, tutto finisce col Museo del Novecento. A Roma la Galleria d'arte moderna è stata gloriosa quando c'era Palma Bucarelli...».
Tanti anni fa.
«Oggi Afro e Mirko, Colla, Licini, Leoncillo non si sa dove stiano. Quale Italia si sta gloriando di questi bravissimi artisti del passato recente? Burri il museo se l'è dovuto fare da solo, con grandi sacrifici. Mentre la Francia glorifica Daniel Buren che, sinceramente, più di qualche striscia non ha fatto».

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